Il contesto normativo in cui si articola la vicenda ha la sua radice nella L. 662/1996 (art. 1 comma 56) che aveva introdotto un regime di incompatibilità relativa tra lo svolgimento della professione forense e l'impiego di lavoro pubblico: detta normativa permetteva il concomitante esercizio di entrambe attività purchè il rapporto di impiego fosse a tempo parziale.
Con la L. 339/2003 il legislatore reintroduce, modificando la disciplina del 1996, l'incompatibilità assoluta tra l'esercizio della professione forense e l'impiego di lavoro pubblico. Tutti coloro che esercitavano la professione forense in regime di incompatibilità relativa, dunque, avrebbero dovuto scegliere, entro tre anni dall'entrata in vigore della normativa, se svolgere la professione oppure mantenere il rapporto di impiego.
La mancata comunicazione avrebbe comportato la cancellazione d'ufficio dall'Albo del professionista.
Nel caso di specie i ricorrenti erano stati tutti cancellati d'ufficio dall'Albo dai rispettivi ordini professionali che avevano dato attuazione al dettato legislativo, cancellazione che lo stesso CNF ribadiva a seguito dell'impugnazione promossa contro i provvedimenti dei COA.
A seguito di gravame in Cassazione, la Corte, ripercorrendo l'iter normativo e giurisprudenziale ha manifestato dei dubbi sulla legittimità costituzionale della normativa introdotta dalla L. 339/2003.
In particolare, secondo a Corte il legislatore non avrebbe tenuto conto delle situazioni già in atto venutesi a creare in applicazione della precedente normativa, sconvolgendo in tal modo preesistenti e ormai consolidati equilibri, e disattendendo l'affidamento e l'aspettativa dei ricorrenti alla conservazione dello status di dipendenti pubblici part-time e di avvocati.
A cura di Niccolò Andreoni