La Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di Cassino, dichiarava inammissibile una domanda diretta a ottenere la declaratoria di illegittimità di un licenziamento, nella considerazione che, oltre sei mesi prima dell’avvio del tentativo di conciliazione, il lavoratore aveva rinunciato all’impugnazione del licenziamento inviando una dichiarazione al proprio difensore. La Corte d’Appello, in particolare, attribuiva a suddetta dichiarazione la sostanza e la forma di una rinuncia, effettuata in sede non protetta e divenuta irreversibile in quanto non impugnata nel termine semestrale di cui all’art. 2113 c.c.
La Corte di Cassazione, dopo aver ricordato (v. anche Cass., Sez. Lav., 19831/2013) che la dichiarazione sottoscritta dal lavoratore può assumere valore di rinuncia o transazione, sempre che si verta su diritti disponibili e che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza dei diritti e con il cosciente intento di abdicarvi o transigere, ha affermato che la censura, in sede di legittimità, del relativo giudizio di accertamento, è possibile soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o di vizi di motivazione.
Si conferma, dunque, la correttezza della valutazione della Corte territoriale, la quale, applicando correttamente i criteri di ermeneutica negoziale, aveva attribuito alla dichiarazione del lavoratore forma e sostanza di rinuncia a diritti disponibili effettuata con consapevole volontà abdicativa; pertanto, la mancata impugnazione per vizi di volontà nel termine semestrale rendeva irrilevanti sia le motivazioni che avevano condotto il lavoratore a suddetta determinazione, sia il suo comportamento successivo.
A cura di Leonardo Cammunci