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giurisprudenza

Se il compenso è concordato, non si applicano né le tariffe forensi né il criterio dell’importanza dell’opera (Cass., Sez. II, Ord., 4 febbraio 2021, n. 2631)

La sentenza in commento trae origine dalla domanda giudiziale, formulata da un cliente nei confronti del proprio avvocato, di restituzione in proprio favore della differenza tra quanto percepito dallo stesso professionista e quanto invece dovutogli per l’attività posta in essere in una vittoriosa causa di risarcimento danni da espropriazione svoltasi contro la Provincia di Sassari di fronte al Tribunale del luogo.

In particolare, il cliente deduceva che l’avvocato, incassato dalla Provincia di Sassari l’importo complessivo di € 519.793,14, al cui pagamento l’ente era stato condannato con sentenza del 2002, si era liquidato -e quindi aveva trattenuto- la somma di € 150.011,89, a titolo di compenso per le prestazioni giudiziali eseguite.

Tuttavia, sia il Tribunale di Sassari sia la Corte d’Appello di Cagliari rigettavano la domanda, essendo emerso nel giudizio di merito che nel 2005 avvocato e cliente avevano concluso, mediante scrittura privata, un accordo sulle competenze dovute per l’opera professionale svolta nel giudizio in questione, pattuite proprio nella misura di complessivi € 150.000 (accessori di legge inclusi); e che con il medesimo atto l’avvocato era stato autorizzato dal cliente a incassare dalla p.a. e trattenere le somme a lui spettanti.

Avverso la decisione d’appello il cliente ricorre in Cassazione, lamentando fra l’altro, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3, la violazione dell’art. 2233 c.c. e del D.M. 8.4.2004 sulle tariffe professionali, per non avere la Corte d’Appello valutato se la misura del compenso fosse proporzionata all’attività prestata (considerato che l’attività svolta dall’avvocato contro la Provincia non era stata particolarmente complessa, essendo la p.a. rimasta contumace ed essendosi la difesa processuale di parte attrice sostanzialmente esaurita con l’acquisizione della CTU che aveva determinato l’indennità di esproprio).

Senonché, la Corte rigetta il ricorso, affermando che, in tema di compensi spettanti ai prestatori d’opera intellettuale, l’art. 2233 c.c. stabilisce un preciso ordine gerarchico tra i criteri applicabili, indicando quale criterio prevalente in primo luogo l’accordo delle parti ed in via soltanto subordinata le tariffe professionali o gli usi; cosicché le pattuizioni tra le parti risultano dunque preminenti su ogni altro criterio di liquidazione (Cass., Sez. II, 23 maggio 2000, n. 6732; Cass., Sez. VI-2, 29 dicembre 2011, n. 29837; Cass., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17726), e il compenso va determinato in base alla tariffa e deve essere adeguato all’importanza dell’opera soltanto in mancanza di convenzione.

In particolare, la Corte afferma che, in materia di onorari di avvocato, deve ritenersi valida la convenzione tra professionista e cliente che stabilisca la misura degli stessi in misura superiore al massimo tariffario (Cass., Sez. II, 5 luglio 1990, n. 7051; Cass., Sez. II, 10 ottobre 2018, n. 25054; Cass., Sez. Un., 26 febbraio 1999, n. 103).

Nel caso di specie, dunque, la Corte territoriale, avendo accertato che le parti avevano inteso disciplinare la materia con un loro accordo, ha correttamente ritenuto che la validità e l’efficacia di tale accordo impediva al giudice, ai sensi del menzionato art. 2233 c.c., di intervenire in senso modificativo di una previsione espressione dell’autonomia negoziale delle parti.

Interessante è notare che non è mancato chi, in dottrina, ha contestato l’intangibilità dell’accordo economico tra professionista e cliente, affermata dalla giurisprudenza e segnatamente dalla sentenza in commento, ritenendo invece ammissibile l’intervento correttivo del giudice allorquando il pattuito corrispettivo sia tanto elevato da perdere qualsivoglia giustificazione alla luce dell’attività svolta, ovvero sia talmente irrisorio da non apportare al prestatore d’opera nemmeno quel minimo ristoro che gli si deve per l’attività svolta diligentemente.

Nondimeno, a tale obiezione è possibile replicare che, in un ordinamento giuridico come il nostro, basato sul principio di libertà contrattuale, l’equilibrio del contratto può essere sindacato solo in base a un’espressa normativa speciale, quando cioè sia la legge a stabilire che una determinata posizione di debolezza meriti di essere protetta (ad es., con la disciplina dell’equo compenso, l’avvocato che stipuli una convenzione con imprese di grandi dimensioni o p.a.) o che sussista un interesse superindividuale (es. protezione del mercato creditizio o della concorrenza).

È vero che il contratto concluso tra professionista e cliente consumatore è soggetto alla disciplina delle clausole vessatorie ex artt. 33 ss. cod. cons., ma come è noto il “significativo squilibrio” rilevante ai fini del giudizio di vessatorietà va inteso in senso normativo, riferito ai diritti e agli obblighi derivanti dal contratto, esclusa ogni valutazione sulla convenienza economica dell’affare e sul rapporto tra le due prestazioni (come chiarito espressamente dall’art. 34 c. 2 cod. cons.).

A cura di Stefano Valerio Miranda