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parere

Avvocato: inammissibilità della clausola che prevede, in caso di revoca del mandato, l’obbligo di corrispondere al legale compensi per attività non svolte

Viene chiesto a questo Consiglio un parere in merito alla possibilità per un avvocato di “concordare preventivamente con il proprio cliente una clausola avente il seguente tenore: – in caso di revoca del mandato, rimarrà l’obbligo di corrispondere al professionista, oltre alle spese sostenute, il compenso pattuito per le fasi processuali già svolte, oltre ad un importo (pari ………) sull’intero compenso dovuto per le fasi ulteriori non svolte”, precisando che tale penale è stata determinata “tenendo conto delle spese generali di organizzazione e gestione dell’attività professionale -”.
In altri termini viene chiesto se “è possibile per l’avvocato pretendere dal proprio cliente il pagamento di una penale in caso di revoca del mandato (peraltro parametrata al compenso dovuto per attività non effettivamente svolte)”.
1. Norme rilevanti e giurisprudenza. Gli articoli 13 (“Conferimento dell’incarico e compenso”) e 13bis (“Equo compenso e clausole vessatorie”) della 247/2012, sull’ordinamento della professione forense, insieme agli artt. 25 (“Accordi sulla definizione del compenso”) e 29 (“Richiesta di pagamento”) del codice deontologico forense (“c.d.f.”) costituiscono (insieme al D.M. 55/2014 aggiornato con il D.M. 37/2018 relativi alle Tabelle dei parametri forensi) il corpo di norme professionali specifiche per gli avvocati dedicate alla disciplina dei loro compensi. Nessuna delle norme richiamate disciplina in maniera precisa il contenuto del contratto di prestazione d’opera professionale intellettuale. In mancanza di una disciplina più specifica occorre pertanto far riferimento alle norme generali che disciplinano il contratto di prestazione d’opera intellettuale e, in particolare, all’art. 2237 c.c., rubricato “Recesso”, il quale stabilisce che ” il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il compenso per l’opera svolta.
Il prestatore d’opera può recedere dal contratto per giusta causa. In tal caso egli ha diritto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l’opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente.
Il recesso del prestatore d’opera deve essere esercitato in modo da evitare pregiudizio al cliente”.
Si tratta di norma che tende a favorire il cliente rispetto al prestatore d’opera intellettuale in ragione della natura fiduciaria del rapporto e della ordinaria asimmetria informativa che caratterizza il rapporto fra il professionista e il “consumatore” delle sue prestazioni.
La giurisprudenza ha da sempre interpretato la norma ritenendo che “(…) posto che la disciplina del recesso unilaterale dal contratto prevista dall’art. 2237 c.c. dispone che, in caso di recesso del cliente, al prestatore d’opera spetta il rimborso delle spese sostenute ed il corrispettivo per l’opera eseguita, mentre quella dettata dall’art. 2227 c.c. per il contratto d’opera in generale comprende anche il mancato guadagno, vi è incompatibilità tra le due disposizioni con conseguente prevalenza della norma speciale, in ragione delle peculiarità che contraddistinguono la prestazione d’opera intellettuale”(così da ultimo Cass., 9 gennaio 2020, n. 185).
Statuendo in maniera più specifica in merito alle spettanze del professionista al momento del recesso, la Suprema Corte aveva già stabilito che “l’art. 2237 c.c. – nel consentire al cliente di recedere dal contratto di prestazione di opera intellettuale – ammette, in senso solo parzialmente analogo a quanto stabilito dall’art. 2227 c.c. per il contratto d’opera, la facoltà di recesso indipendentemente dal comportamento del prestatore d’opera intellettuale, ossia prescindendo dalla presenza o meno di giusti motivi a carico di quest’ultimo; tale amplissima facoltà – che trova la sua ragion d’essere nel preponderante rilievo attribuito al carattere fiduciario del rapporto nei confronti del cliente – ha come contropartita l’imposizione a carico di quest’ultimo dell’obbligo di rimborsare il prestatore delle spese sostenute e di corrispondergli il compenso per l’opera da lui svolta, mentre nessuna indennità è prevista (a differenza di quanto prescritto dal cit. art. 2227 c.c.) per il mancato guadagno.” (così Cass., 25 giugno 2007, n. 14702).
2. L’ammissibilità della clausola penale. La funzione della clausola penale è strettamente legata al diritto del creditore della prestazione al risarcimento del danno in caso di inadempimento contrattuale. Essa ha il compito di predeterminare l’entità del danno e di liberare il creditore dall’onere di prova del medesimo (salvo il diritto, e il conseguente onere probatorio, del maggior danno).
Laddove il diritto al risarcimento del danno non sia riconosciuto, come nel caso del prestatore d’opera intellettuale in caso di recesso del committente, si deve ritenere che non possa essere prevista alcuna clausola penale e, laddove prevista, essa debba essere considerata nulla e che il prestatore d’opera abbia unicamente diritto alla retribuzione del lavoro svolto e al rimborso delle spese sostenute a beneficio del cliente.
3. L’apposizione di un termine al contratto di prestazione d’opera professionale. Data la natura del quesito si ritiene opportuno integrare la precedente motivazione con una breve digressione in materia di apposizione di un termine al contratto di prestazione d’opera intellettuale. La giurisprudenza, infatti, ha da sempre ritenuto ammissibile l’apposizione di un termine al contratto di prestazione d’opera intellettuale, ritenendo che “in tema di contratto di prestazione d’opera intellettuale, la previsione della possibilità di recesso ad nutum del cliente contemplata dall’art. 2237, 1º comma, c.c., non ha carattere inderogabile e quindi è possibile che, per particolari esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al termine del rapporto; l’apposizione di un termine ad un rapporto di collaborazione professionale continuativa può essere sufficiente ad integrare la deroga pattizia alla facoltà di recesso così come disciplinata dalla legge, non essendo a tal fine necessario un patto specifico ed espresso; pertanto, poiché in assenza di pattuizioni diverse o di giusta causa, l’apposizione di un termine finale determina in modo vincolante la durata del rapporto, nel caso di recesso unilaterale dal contratto da parte del committente il prestatore ha il diritto di conseguire il compenso contrattualmente previsto per l’intera durata del rapporto” (così Cass., 29 novembre 2006, n. 25238).
Occorre ricordare tuttavia che recentemente la Cassazione ha precisato in senso restrittivo tale orientamento in tema di contratto d’opera professionale. Vale la pena di riportare il testo della motivazione della sentenza allo scopo di chiarire i limiti entro i quali è ammessa l’efficacia a favore del prestatore d’opera della previsione di un termine contrattuale: “(…) Si insegna in dottrina, che ha di recente dato sistemazione alla materia, che il recesso ad nutum di cui all’articolo 2237, che prevede comunque il dovere del cliente di corrispondere al prestatore d’opera intellettuale spese e compensi per l’attività svolta, si fonda sui connotati spiccatamente fiduciari di questo tipo di rapporto. Il recesso è funzionale al fondamento fiduciario di esso e giustifica una tutela meno intensa del prestatore, sotto il profilo della continuità del rapporto. E’ da qui che discende, si è osservato, la esclusione del diritto al mancato guadagno.
Sulla base di queste riflessioni è da risolvere la tematica della derogabilità della facoltà di recesso.
Su questo tema la dottrina ha sempre mostrato cautela, richiedendo che la rinuncia risulti espressamente o sia stata oggetto di specifica trattativa tra le parti, con l’avvertenza che in ogni caso la previsione del patto di rinuncia al recesso comporta soltanto un aggravamento delle conseguenze del recesso.
In questo quadro la tesi di parte ricorrente, secondo cui l’inserimento in contratto di un termine di durata comporterebbe automaticamente la rinuncia alla facoltà di recesso, non è condivisibile.
La tesi ha trovato eco giurisprudenziale (Cass. 22786/13), ma si scontra con il più pensoso orientamento, che è in linea con gli interessi di fondo che stanno alla base del contratto e che sono stati prima rapidamente enunciati, secondo cui il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d’opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti; si riferisce cioè all’andamento ordinario del rapporto, non alla sua fase di risoluzione. Si è inoltre evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto.
Né appare fondato addurre a favore della tesi di cui al ricorso l’applicazione analogica della disposizione di cui all’articolo 1569 c.c., in tema di somministrazione, giacche’ non si è in presenza di una lacuna normativa, ma di una diversa regolamentazione codicistica del recesso a fronte di due contratti con connotati peculiari, assetto che non consente un’operazione ortopedico-integrativa del dettato normativo.
Tutto ciò induce a credere che soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti molto qualificati con contratti sottoposti a trattativa, la rinuncia al recesso debba esprimersi contrattualmente e non sia consentita un’espansione per implicito della clausola di durata, così penalizzante per il cliente.
E’ pertanto da confermare l’orientamento di questa Sezione (Cass. 469/16) secondo cui in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso ad nutum previsto, a favore del cliente, dall’articolo 2237 c.c., comma 1.
Solo l’esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito” (così Cass. 15 ottobre 2018, n. 25668).
4. Conclusioni. In virtù del disposto dell’art. 2237 c.c. si deve ritenere nulla la clausola penale apposta a un contratto di prestazione d’opera intellettuale per il caso di recesso anticipato esercitabile “ad nutum” dal committente.
È ammessa l’apposizione di un termine finale al contratto di prestazione d’opera intellettuale, ma tale termine è idoneo a impedire il recesso “ad nutum” del committente solo qualora il contenuto dell’accordo “dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita”.
Ciò detto circa il quesito, corre infine l’obbligo di precisare che con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai Consigli Distrettuali di Disciplina Forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine.
Ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo.
Pertanto è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.