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parere

Avvocato: non è incompatibile con l’esercizio della professione forense assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile ovvero ricoprire il ruolo di amministratore unico in società che si limitino alla gestione di beni personali o di famiglia; per famiglia deve necessariamente intendersi quella di cui all’art. 29 Cost. fondata sul matrimonio o su altre unioni alla stessa assimilabili

È stato richiesto parere riguardo alla compatibilità con l’esercizio della professione di avvocato e l’assunzione della qualità di socio al 4% nonché dell’incarico di amministratore unico nella società semplice agricola di famiglia.

In merito al quesito posto, si ritiene che le norme chiarificatrici sul punto siano gli artt. 18 e 19 L.P che si occupano dell’incompatibilità della professione di avvocato e delle sue deroghe.

La ratio delle norme richiamate è quella di garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’Avvocato nell’esercizio della sua attività professionale previsti all’art. 1, comma 2, lett. b) e all’art. 2, comma 1, della citata legge.

Al precedente dettato normativo deve poi aggiungersi il richiamo effettuato dall’art. 6 del C.D.F. che sancisce per l’Avvocato il divieto di esercitare attività incompatibili con la permanenza dell’iscrizione all’albo e con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense.

In particolare l’art. 18, lett. c), prescrive che la professione forense è incompatibile “con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l’esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite, nonché con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, nonché con la qualità di Presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione”, specificando che questo tipo di incompatibilità “non sussiste se l’oggetto della attività della società è limitata esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o familiari, nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico.”

Da tutto quanto sopra deriva che l’avvocato può assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile o assumere la carica di amministratore unico in società che si limitino all’amministrazione di beni personali o familiari. In quest’ultimo caso, per famiglia (e quindi per beni familiari – cioè beni dei familiari dell’avvocato) si intende necessariamente quella prevista dall’art. 29 Cost. e cioè quella fondata sul matrimonio, o su altre unioni ad esso assimilabili, comprendendo quindi normalmente persone che convivono nello stesso nucleo familiare.

Nella richiesta di parere non si dice esattamente se sia o meno così, anzi, sembra ipotizzarsi il contrario poiché appare che la società venga costituita sì con parenti ma appartenenti ad altri nuclei familiari. Quindi, qualora questa ipotesi sia confermata, l’esenzione dalla incompatibilità prevista per le società che amministrano beni familiari non è applicabile al caso concreto.

Resta da vedere se l’attività indicata nella richiesta di parere, che si sostanzia essenzialmente nella gestione delle proprietà agricole, possa essere configurata come imprenditoriale e quindi come incompatibile con l’esercizio della professione di avvocato.

In merito alla figura dell’imprenditore agricolo il CNF ha risposto con due pareri che si rifanno entrambi all’articolo 18 della nuova disciplina dell’ordinamento forense (legge n. 247/2012), dove sono elencate, come predetto, tutte le cause di incompatibilità con l’iscrizione all’albo professionale.

Il primo parere (n. 92 del 25 settembre 2013), risponde a un quesito del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Rieti, che riguarda la compatibilità tra l’esercizio dell’attività di imprenditore agricolo professionale (D.Lgs n. 99/2004) e l’iscrizione all’albo degli avvocati. Ebbene, secondo la Commissione del CNF, «l’incertezza interpretativa ha ragione d’essere solo con riferimento al piccolo imprenditore agricolo», mentre «è evidente che, qualora si tratti di un titolare di una consistente impresa organizzata, o ancora con attività estesa all’industria e al commercio nel settore agro alimentare, questi deve essere considerato un esercente il commercio nel senso più pieno di cui all’art.18 della legge professionale forense e l’iscrizione nell’albo incompatibile con l’attività svolta». Di conseguenza, non rientra tra quelle incompatibili la figura del piccolo imprenditore, ovvero colui che (art. 2083 del codice civile) «per mezzo del lavoro proprio o di quello dei propri congiunti, coltiva il fondo di sua proprietà, eventualmente cedendo i frutti a terzi». In sostanza, secondo la Commissione del CNF, al piccolo imprenditore agricolo manca «quel quid pluris, rappresentato, ad esempio, da una organizzazione aziendale molto articolata, o dallo smercio di prodotti chiaramente eccedenti quelli prodotti dal fondo, o, anche, da una rilevante trasformazione del prodotto naturale, da cui si possa arguire che il carattere predominante dell’attività intrapresa è l’esercizio del commercio, anziché il mero sfruttamento delle risorse terriere».

Concludendo pertanto occorre valutare la consistenza dell’apporto fornito dal socio-avvocato all’impresa agricola come organizzata e se si tratta di piccolo imprenditore o meno.

Ci corre l’obbligo infine di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense il “potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” (art 50 L.247/2012) e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tanto meno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quale esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione dei comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio anche per quanto riguarda l’elemento soggettivo.