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giurisprudenza

Il fattore tempo è fondamentale nella valutazione dell’efficacia delle misure giurisdizionali adottate a tutela della relazione genitore-figli (Corte Eu. Dei Diritti dell’Uomo, 10 dicembre 2020, ricorso n. 36936/18)

La sentenza in commento trae origine dal ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo presentato nel luglio 2018 da un cittadino italiano, che lamentava la mancata adozione da parte dello Stato italiano delle misure necessarie a far valere il suo diritto di svolgere il ruolo paterno nei riguardi del figlio minore alle condizioni stabilite dai giudici nazionali, in violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; chiedendo perciò la somma di € 80.000 a titolo di risarcimento del danno morale subito.

Segnatamente, il ricorrente esponeva di aver cessato la convivenza con la propria compagna nel 2010, quando il figlio nato dalla relazione aveva appena due anni, e che da allora la madre del bambino, con la quale il piccolo aveva proseguito la convivenza, aveva ingiustificatamente posto in essere un comportamento ostruzionistico nei confronti della relazione padre-figlio, ostacolando gli incontri (anche tramite la decisione unilaterale di trasferirsi con il figlio in una città distante 100 km), estromettendolo dalle decisioni fondamentali riguardanti la vita del minore, e ingenerando in quest’ultimo un atteggiamento di rifiuto nei confronti della figura paterna.

Ciò, in violazione dei provvedimenti adottati nel corso degli anni dal Tribunale per i Minorenni di Roma, che già nel 2010 aveva disposto l’affidamento condiviso e regolamentato la frequentazione padre-figlio, e che successivamente, a fronte delle continue istanze del padre e della condotta illecita della madre, confermata anche dalle relazioni dei servizi sociali, si era in sostanza limitato ad ammonire la madre e a disporre per un breve periodo l’affidamento a detti servizi (salvo poi ripristinare l’affidamento condiviso).

Solo nel 2016, in base a una perizia psicologica svolta da un centro specializzato, il Tribunale per i Minorenni, ritenendo l’ambiente materno pregiudizievole per il minore, aveva disposto il suo allontanamento dalla madre e dai nonni materni, il suo collocamento presso una casa-famiglia e l’avvio di un percorso psicoterapeutico per aiutarlo a riavvicinarsi al padre.

Cosicché, nel marzo del 2018 il Tribunale potè finalmente constatare il miglioramento della situazione familiare, e in particolare della relazione padre-figlio e del rapporto tra i genitori, che avevano incominciato a collaborare nell’esercizio della comune responsabilità genitoriale.

Orbene, la Corte rileva come l’articolo 8 Cedu non si limiti a ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze nella vita privata o familiare, ma gli imponga di attivarsi e adottare ogni misura ragionevolmente possibile per garantire il rispetto di tale vita familiare e delle relative decisioni giudiziarie, incluse le relazioni reciproche fra individui e segnatamente quelle tra genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori.

Proprio quando si tratti di proteggere la relazione genitore-figlio, l’adeguatezza di una misura si valuta in base alla rapidità della sua attuazione, onde evitare che il trascorrere del tempo possa avere, di per sé, delle conseguenze su tale relazione.

Nel caso di specie, la Corte rileva come, già tra il 2011 e il 2012, i servizi sociali abbiano suggerito al Tribunale di disporre una perizia sulle capacità genitoriali di entrambi i genitori, che tuttavia è stata disposta solo nel 2015; e che pur essendo stato fissato al 31.12.2015 il termine per il suo deposito, la perizia venne effettivamente depositata solo nell’ottobre 2016, a causa della chiusura del centro specializzato originariamente designato.

Dunque, l’autorità nazionale non ha adottato rapidamente tutte le misure necessarie che si potevano ragionevolmente esigere dalla stessa per far rispettare il diritto del ricorrente di frequentare il figlio e avere con lui una stabile relazione, tollerando per un certo tempo che l’interessato non potesse vedere suo figlio liberamente, e lasciando così che si consolidasse una situazione di fatto contraria alle decisioni giudiziarie.

La Corte ammette che certamente il Tribunale si trovava di fronte a una situazione molto difficile che derivava soprattutto dalle tensioni esistenti tra i genitori del bambino, ma ricorda che una mancanza di cooperazione tra genitori separati non può dispensare le autorità competenti dal mettere in atto tutti i mezzi che possano permettere il mantenimento del legame familiare.

Pertanto, condanna l’Italia per violazione dell’art. 8 Cedu al risarcimento del danno morale subito dal ricorrente, quantificato in via equitativa in € 10.000.

A parere di chi scrive, se la sentenza appare ineccepibile sotto il profilo della motivazione e della decisione di condannare lo Stato italiano, non altrettanto può dirsi riguardo alla quantificazione del risarcimento riconosciuto al ricorrente, in quanto la violazione accertata ha ritardato di vari anni il ripristino della relazione padre-figlio, la cui rilevanza è riconosciuta dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali.

A cura di Stefano Valerio Miranda