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giurisprudenza

Nel processo amministrativo l’assenza di firma digitale comporta la mera irregolarità dell’atto, spontaneamente sanabile (Cons. Stato, Sez. III, 11 settembre 2017, n. 4286)

Nella vicenda in esame, con memoria predisposta per la camera di consiglio, parte appellata ha eccepito l’inammissibilità del ricorso in appello per nullità del gravame, in quanto privo della sottoscrizione con firma digitale prescritta nel processo amministrativo telematico dall’art. 136, comma 2 bis, c.p.a. e dall’art. 9 del DPCM n. 40/2016.

Nello specifico, l’appellante avrebbe depositato in giudizio (i) un ricorso nativo digitale (in formato .pdf) privo di sottoscrizione (ossia privo di firma digitale), nonché (ii) copia per immagini (la scansione) dell’atto di appello (ma ai soli fini della prova dell’avvenuta notifica a mezzo posta), priva della necessaria asseverazione, corredata dalla firma digitale, dell’originale informatico.

A fronte della censura di cui sopra, le appellanti hanno spontaneamente depositato (i) il ricorso in appello nativo digitale munito della firma digitale e (ii) la prova dell’avvenuta notificazione a mezzo posta del ridetto appello.

Al fine di decidere l’eccezione preliminare dell’appellata, il Consiglio di Stato ha richiamato una propria precedente decisione, n. 1541 del 4 aprile 2017, riportandosi integralmente ai principi ivi affermati.

Nel precedente così richiamato, al fine di escludere l’inesistenza e l’abnormità dell’atto introduttivo “perché redatto in formato cartaceo, privo della firma digitale e munito della sola sottoscrizione autografa senza neppure un’attestazione di conformità a un originale digitale”, il Consiglio di Stato ha dapprima rilevato che, per pervenire a tali conclusioni, “dovrebbe effettivamente dirsi che, entrato in vigore il PAT, l’atto processuale cartaceo non sia de hoc mundo” e quindi sancito che “il ricorso non redatto o comunque non sottoscritto in forma digitale, benché certamente non conforme alle prescrizioni di legge, non diverga in modo così radicale dallo schema normativo di riferimento da dover essere considerato del tutto inesistente perché, anche alla luce del principio di strumentalità delle forme processuali, non si configura in termini di non atto (secondo la distinzione fra inesistenza e nullità da ultimo tracciata da Cass. civ., sez. un., 20 luglio 2016, n. 14916)”.

Sempre con la decisione n. 1541/2017, il Consiglio di Stato ha affermato che “poiché nella disciplina del PAT manca una specifica previsione di nullità per difetto della forma e della sottoscrizione digitale, viene meno il presupposto necessario per dichiarare il ricorso nullo nella sua fase genetica, ovvero in relazione alla successiva notificazione e deposito”.

Sulla scorta di quanto sopra – e qui torniamo a quanto osservato nella sentenza n. 4286/2017 in commento – l’assenza di firma digitale costituisce mera irregolarità sanabile, con conseguente applicabilità dell’art. 44 comma 2 c.p.a.; pertanto, in tali ipotesi, il giudice deve fissare un termine perentorio entro il quale la parte onerata deve provvedere alla regolarizzazione dell’atto nelle forme di legge; solo in caso parte onerata non adempia nel termine prescritto, si avrà irricevibilità del ricorso.

Nel caso di specie, osserva il Consiglio di Stato, parte appellante “ha spontaneamente provveduto alla regolarizzazione dell’atto, ed ha depositato il ricorso in appello nativo digitale munito della firma digitale (…), corredato successivamente anche della prova della sua notificazione (…) Sebbene la regolarizzazione avrebbe dovuto essere ordinata dal giudice, ed eseguita dalla parte nel termine ad esso assegnato, nondimeno la spontanea regolarizzazione dell’atto da parte dell’appellante rende inutile la ripetizione di ciò che è stato già spontaneamente eseguito”.

Su tali rilievi, il Consiglio di Stato ha respinto l’eccezione di nullità del ricorso.

A cura di Giulio Carano