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parere

Avvocato: non viola il disposto dell’art. 51 c.d.f. l’avvocato che renda una testimonianza in giudizio sulla base di una chiamata della parte assistita nei confronti della quale abbia cessato il proprio mandato, se la parte assistita ha rinunciato ad avvalersi del diritto al segreto professionale

Fatto e quesito

Un avvocato ha chiesto a questo Consiglio un parere deontologico sulla liceità di una sua eventuale testimonianza in una causa civile vertente tra un suo ex cliente e una società in relazione ad un accordo precedentemente intercorso tra le parti e formalizzato in una scrittura privata.

Nello specifico si precisa che nelle trattative condotte all’epoca dall’avvocato con la società avversaria, quest’ultima è stata rappresentata sempre da funzionari dirigenti e che l’avvocato di fiducia della società è intervenuto concretamente soltanto al momento della sottoscrizione dell’accordo, senza che si siano tenute conversazioni riservate, né alcuna altra forma di corrispondenza tra colleghi.

Risposta al quesito

1. La fattispecie sottoposta all’esame di questo Consiglio richiede l’analisi e la discussione di diversi canoni deontologici: quello previsto dall’art. 51 del Codice Deontologico Forense (c.d.f.), rubricato “La testimonianza dell’avvocato”, quello previsto dall’art. 13, rubricato “Dovere di segretezza e riservatezza”, quello previsto dall’art. 28, rubricato “Riserbo e segreto professionale”, quello previsto dall’art. 38, rubricato “Rapporto di colleganza” .

L’articolo n.51 c.d.f. prevede che:

“1. L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti.

2. L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.

3. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

4. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.”

Vengono poi in rilievo anche altri articoli del c.d.f.:

– l’art. 13 (Dovere di segretezza e riservatezza) “L’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo su fatti e circostanze in qualsiasi modo apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale e comunque per ragioni professionali”.

– l’art. 28 (Riserbo e segreto professionale) con particolare riguardo ai commi 1 e 2:

“1. È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

2. L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato”

– l’art. 38 (Rapporto di colleganza) con particolare riguardo al comma 3:

“3. L’avvocato non deve riportare in atti processuali o riferire in giudizio il contenuto di colloqui riservati intercorsi con colleghi”.

2. L’art. 51 c.d.f. prevede l’obbligo generale di astenersi dal deporre, sia come persona informata sui fatti, che come testimone, salvo casi eccezionali, su fatti appresi nell’esercizio dell’attività professionale.

La ratio della norma “si fonda sulla necessità di garantire che, attraverso la testimonianza, il difensore non venga meno ai canoni di riservatezza, lealtà e probità cui è tenuto nell’attività di difesa, rendendo pubblici fatti e circostanze apprese a causa della sua funzione e coperte dal segreto professionale”. (CNF 8.10.2013 n. 172).

Qualora l’avvocato decida di testimoniare, sulla scorta del comma 3 dell’art. 51 del c.d.f. non potrà assumere il mandato e, se già assunto, dovrà rinunciarvi. Tale obbligo riguarda solo l’incarico cui attiene la testimonianza e non altri mandati eventualmente conferiti all’avvocato dal medesimo cliente e che sono estranei alla vicenda oggetto di deposizione.

La testimonianza deve quindi essere successiva alla conclusione del mandato professionale e deve riguardare circostanze estranee allo stesso (1).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo di astensione dipende dall’esistenza di un mandato professionale con l’avvocato, specificando che: “quest’ultimo debba astenersi dal deporre come testimone su circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano inerenti al mandato ricevuto”(2).

La giurisprudenza disciplinare ha comunque opportunamente distinto nell’ambito dell’eventuale testimonianza dell’avvocato tra circostanze apprese nell’esercizio dell’attività professionale e circostanze coperte invece dal segreto professionale.

Il CNF ha poi precisato che “il segreto professionale costituisce al tempo stesso l’oggetto di un dovere giuridico dell’avvocato, la cui violazione è sanzionata penalmente (622 c.p.) e l’oggetto di un diritto dello stesso avvocato, che non può essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione del proprio ministero. Accanto a questo dovere e a questo diritto vi è però un ulteriore diritto del cliente a che il legale si attenga al segreto professionale e non sveli notizie apprese nel corso del mandato professionale. E tale diritto assume i connotati di un diritto fondamentale, quello di difesa, perché senza tale garanzia il diritto di difesa ne risulterebbe indebitamente e gravemente diminuito” (3).

In virtù di quella che ha ritenuto essere la ratio della norma contenuta nell’art 51 del c.d.f. e nell’art. 13 dello stesso codice, il CNF ha tuttavia anche chiarito che “il dovere di riservatezza dell’avvocato è posto esclusivamente a tutela della sfera privata del cliente o parte assistita e non anche di quella della controparte” (C.N.F. sentenza del 10 giugno 2014, n. 84).

Si può dunque sostenere che la ratio del divieto di testimonianza dell’avvocato posto dall’art. 51 c.d.f. riguarda quindi la necessità di garantire l’integrità e l’effettività del diritto di difesa della parte assistita dal professionista, nonché l’inopportunità di agire nello stesso giudizio in qualità di difensore e testimone. Non è oggetto di tutela il diritto alla riservatezza o alla difesa della controparte della parte assistita (o del cliente o dell’ex cliente).

Non risulta tuttavia alcuna giurisprudenza specifica del Consiglio Nazionale Forense relativa al nuovo testo della norma sul divieto di testimoniare dell’avvocato e, come è specificato anche in calce al presente documento, il contenuto dei pareri espressi da questo Consiglio sulla materia deontologica non è vincolante per il Consiglio Distrettuale di Disciplina che è l’organo al quale appartiene il potere disciplinare nella materia deontologica.

3. Pare quindi opportuno sottolineare anche alcuni elementi che potrebbero deporre a favore di un’interpretazione più restrittiva rispetto a quella enunciata nei paragrafi precedenti.

La dizione dell’attuale art. 51 c.d.f. fa riferimento a “casi eccezionali” per giustificare l’eventuale decisione dell’avvocato di rendere la propria testimonianza. Tale dizione è diversa e più restrittiva rispetto a quella del precedente art. 58 del codice abrogato – che faceva riferimento all’obbligo per l’avvocato di astenersi dal testimoniare “per quanto possibile” .

La scelta del legislatore deontologico di mutare il testo della norma che pone per l’avvocato il divieto di testimoniare potrebbe rendere preferibile un’interpretazione che limita ai soli casi eccezionali la possibilità dell’avvocato di rendere testimonianza su “circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti”. Ciò indipendentemente da ogni indagine sulla ratio della norma che, nell’interpretazione dell’art. 58 del vecchio codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense aveva rintracciato nella tutela dell’effettività e integrità del diritto di difesa della parte assistita, leggendo quindi l’obbligo di astenersi dal testimoniare come strumentale alla tutela del diritto/obbligo alla riservatezza e al segreto professionale di cui all’art. 9 del precedente c.d.f. (attuale art. 13 c.d.f. vigente).

L’attuale collocazione dell’art 51 c.d.f. nel Titolo IV del Codice Deontologico Forense, fra i “Doveri dell’Avvocato nel Processo”, potrebbe inoltre indurre a ritenere che l’interesse tutelato dalla norma sia l’integrità (e la credibilità) del “processo” in quanto tale, piuttosto che l’effettività e la pienezza del diritto di difesa della parte assistita dall’avvocato, cosicché si potrebbe ritenere che il divieto posto dall’art. 51 c.d.f. sia assoluto e che l’avvocato non possa mai deporre su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale, salvo casi eccezionali.

4. Diversa è la ratio del principio sancito dall’art. 38 c.d.f., che riguarda non tanto la tutela del diritto di difesa della parte assistita (o del cliente o ex cliente), quanto piuttosto l’attività e la libertà dell’avvocato nel condurre le trattative. È a questo scopo infatti che l’art. 38 c.d.f. impone all’avvocato di non riferire il contenuto di colloqui riservati intercorsi con i colleghi.

L’art. 38 c.d.f. non riguarda tuttavia l’ipotesi in cui le trattative non abbiano coinvolto un collega del difensore, ma terzi non esercenti la professione di avvocato.

5. Ai sensi dell’art. 200 c.p.p. (richiamato dall’art. 249 c.p.c.) tuttavia, l’Avvocato ha facoltà di astenersi dal deporre come testimone “su quanto ha(nno) conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione”. Ciò comporta per l’avvocato l’esclusione dell’obbligo di rendere testimonianza su tutto ciò che ha formato oggetto della sua conoscenza per ragione di un determinato incarico.

 

6. Conclusioni. Stante quanto detto sopra si può ritenere che:

1. l’obbligo di riservatezza e di mantenere il segreto professionale imposto all’avvocato dall’art. 51 del c.d.f. riguardi la parte assistita (o il cliente o l’ex cliente) dal professionista e non la controparte;

2. la chiamata a deporre in giudizio in qualità di testimone sui fatti connessi al mandato può essere interpretata come un implicito atto di rinuncia al diritto alla segretezza da parte dell’ex cliente, ma pare estremamente opportuno che l’atto di rinuncia risulti da una dichiarazione esplicita dell’ex cliente di rinuncia alla tutela offerta dalla norma sul segreto professionale;

3. secondo questo Consiglio l’avvocato non viola il disposto dell’art. 51 c.d.f. allorquando decida di rendere una testimonianza in giudizio sulla base di una chiamata della parte assistita nei confronti della quale abbia cessato il proprio mandato (o nei confronti dell’ex cliente se diverso), se la parte assistita ha rinunciato ad avvalersi del diritto al segreto professionale. Il Consiglio Nazionale Forense non ha tuttavia ancora avuto modo di pronunciarsi sul tema specifico su cui verte il quesito e gli orientamenti in materia deontologica dei diversi Consigli degli Ordini degli avvocati non sono vincolanti per i Consigli Distrettuali di Disciplina, titolari del potere disciplinare nei confronti degli iscritti;

4. viola il disposto dell’art 38 c.d.f. l’avvocato che deponga in giudizio in qualità di testimone sul contenuto di colloqui o di corrispondenza riservata intrattenuti con un collega in esecuzione di un determinato mandato professionale;

5. non viola l’art. 38 c.d.f. l’avvocato che deponga in giudizio sul contenuto di colloqui o corrispondenza intrattenuti in occasione dell’esperimento di un mandato professionale con persone diverse da un collega. L’avvocato ha tuttavia facoltà di astenersi dal deporre su tutto quanto conosciuto in ragione del proprio incarico in virtù del disposto dell’art. 200 c.p.p. (richiamato dall’art. 249 c.p.c.).

 

Ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.

 

NOTE: (1) Cfr. Cassazione a Sezioni Unite n. 22253/2017.

(2) Cfr. Cassazione Penale, sez. VI. 02 aprile 2013, n. 15003

(3) Cfr. parere n. 9 del 9 maggio 2007