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parere

Avvocato: sul dovere deontologico di astenersi dal testimoniare su fatti e circostanze conosciute in ragione del proprio ufficio

1. Quesito. Un avvocato ha assistito due coniugi in una separazione consensuale, portando a termine l’incarico. Successivamente, a seguito di una lite insorta tra i medesimi suoi ex clienti, l’avvocato viene chiamato da uno di essi a testimoniare in giudizio su circostanze apprese nello svolgimento del mandato congiunto. Si chiede a questo Consiglio se sussista o meno per il legale l’obbligo di astenersi dal deporre.

2. Norme rilevanti e giurisprudenza. È norma rilevante per la risposta al quesito formulato l’art. 51 del Codice deontologico forense (d’ora in poi “c.d.f.”) il quale prevede che:

“1. L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti.

2. L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.

3. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

4. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.”

3. Valutazione della fattispecie. Sotto il vigore del codice previgente il Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi “CNF”) ha chiarito che “il segreto professionale costituisce al tempo stesso l’oggetto di un dovere giuridico dell’avvocato, la cui violazione è sanzionata penalmente (622 c.p.) e l’oggetto di un diritto dello stesso avvocato, che non può essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione del proprio ministero. Accanto a questo dovere e a questo diritto vi è però un ulteriore diritto del cliente a che il legale si attenga al segreto professionale e non sveli notizie apprese nel corso del mandato professionale. E tale diritto assume i connotati di un diritto fondamentale, quello di difesa, perché senza tale garanzia il diritto di difesa ne risulterebbe indebitamente e gravemente diminuito”(1).

Sempre il CNF ha poi ulteriormente precisato che “l’obbligo per l’avvocato di astenersi, per quanto possibile, dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto (art. 58 cdf) si fonda sulla necessità di garantire che, attraverso la testimonianza, il difensore non venga meno ai canoni di riservatezza, lealtà e probità cui è tenuto nell’attività di difesa, rendendo pubblici fatti e circostanze apprese a causa della sua funzione e coperte dal segreto professionale”(CNF, sentenza del 8 ottobre 2013, n. 172).

Anche la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo di astensione dipende dall’esistenza di un mandato professionale con l’avvocato, specificando come “quest’ultimo debba astenersi dal deporre come testimone su circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano inerenti al mandato ricevuto”(2).

Sotto il vigore dell’art. 58 del coDice deontologico abrogato il CNF aveva quindi rintracciato la ratio della norma nella tutela dell’effettività e integrità del diritto di difesa della parte assistita leggendo l’obbligo di astenersi dal testimoniare come strumentale alla tutela del diritto/obbligo alla riservatezza e al segreto professionale di cui all’art. 9 del precedente c.d.f. (attuale art. 13 c.d.f. vigente). La dizione della norma previgente riferita al divieto di testimonianza dell’avvocato faceva tuttavia riferimento all’obbligo di astenersi dal testimoniare “per quanto possibile”.

La dizione dell’attuale art. 51 c.d.f., che riporta gli stessi principi, fa invece riferimento soltanto a “casi eccezionali” per giustificare l’eventuale decisione dell’avvocato di rendere la propria testimonianza. Tale dizione, diversa e più restrittiva rispetto a quella del precedente art. 58, potrebbe rendere preferibile un’interpretazione che limiti ai soli casi eccezionali la possibilità dell’avvocato di rendere testimonianza su “circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti”. Ciò indipendentemente da ogni indagine sulla ratio della norma.

L’attuale collocazione dell’art 51 c.d.f. nel Titolo IV del Codice Deontologico Forense, fra i “Doveri dell’Avvocato nel Processo”, potrebbe inoltre indurre a ritenere che l’interesse tutelato dalla norma sia l’integrità (e la credibilità) del “processo” in quanto tale, piuttosto che l’effettività e la pienezza del diritto di difesa della parte assistita dall’avvocato, cosicché si potrebbe ritenere che il divieto posto dall’art. 51 c.d.f. sia assoluto e che l’avvocato non possa mai deporre su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale, salvo casi eccezionali.

Non esistono tuttavia pronunce giurisprudenziali sul punto che possano orientare con certezza la condotta dell’avvocato in merito.

Nel silenzio della giurisprudenza pare quindi prudente astenersi dal deporre comunque su “circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale” e ciò “allo scopo di mantenere alla funzione difensiva una più corretta linearità ed estraneità alla lite e salvaguardare il dovere di riservatezza e segretezza, che non è solo protezione degli interessi della parte, ma è soprattutto protezione della funzione”.

Nel caso in esame l’astensione appare inoltre quanto mai opportuna visto che la testimonianza riguarderebbe circostanze e dichiarazioni rese da un ex cliente dell’avvocato di cui si chiede la testimonianza che verrebbero utilizzate in giudizio contro l’ex cliente medesimo.

4. Conclusioni. L’avvocato chiamato a rendere testimonianza su fatti e circostanze che ha conosciuto in ragione del proprio ufficio ha un dovere deontologico di astenersi dal testimoniare. In assenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia definito in via interpretativa gli esatti confini di applicabilità e la ratio ispiratrice dell’art. 51 del nuovo c.d.f., pare prudente un’interpretazione restrittiva che limiti la possibilità dell’avvocato di deporre in qualità di testimone su fatti appresi nell’esercizio del proprio mandato a “casi eccezionali”.

Sulla definizione di cosa debba intendersi per “caso eccezionale” non vi sono tuttavia pronunce giurisprudenziali, né il Consiglio ha l’autorità per riempire di contenuto concreto tale locuzione.

Ciò detto circa il quesito, ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.

NOTE

(1) Cfr. parere n. 9 del 9 maggio 2007

(2) La stessa Corte ha tuttavia precisato anche che “la testimonianza resa da un difensore, in violazione dei doveri deontologici in tema di segreto professionale, è utilizzabile, non integrando una violazione di disposizioni processuali previste a pena di inutilizzabilità” Cfr. Cassazione Penale, 2 aprile 2013, n. 15003.

(3) Così R. Danovi, Manuale breve. Ordinamento forense e deontologia, Milano, 2019, p. 148