Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza in commento, non hanno avuto “clemenza” di un avvocato che era stato sospeso dal CNF per sei mesi dall’esercizio della professione. Peraltro, i fatti che avevano portato a tale sanzione erano stati di particolare gravità e meritano di essere analizzati nel dettaglio.
Tutta la vicenda era nata dall’errore professionale di un avvocato, al quale era stata respinta una richiesta di risarcimento del danno derivante da sinistro stradale, per non aver inviato alla Compagnia di assicurazioni la lettera di messa in mora, all’epoca prevista dall’art. 22 della Legge n. 990/1969. Per sopperire a tale errore, il legale, in modo creativo, aveva predisposto una fittizia lettera di messa in mora alla quale aveva allegato la ricevuta di un’altra raccomandata. In forza di tale documento, l’avvocato aveva poi incaricato un collega di Studio, ignaro della falsità della comunicazione, di recuperare il credito professionale asseritamente maturato nei confronti degli ex clienti. Tale documento veniva poi prodotto in tutti i gradi del suddetto giudizio.
La questione sia della creazione del documento che della sua successiva utilizzazione veniva portata all’attenzione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato “truffaldino”. In particolare, il Consiglio dell’Ordine aveva ritenuto prescritto il primo addebito, ma non il secondo, riconoscendo di conseguenza il legale colpevole della sola utilizzazione, seppur indiretta, del documento falso, sospendendolo per sei mesi dall’esercizio dell’attività professionale.
Il CNF aveva confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine. Più precisamente, a detta del CNF l’incolpato aveva operato, nel giudizio promosso per il recupero degli onorari professionali, come una sorta di difensore occulto. Infatti, l’avvocato “falsificatore” si era difeso nel merito, sostenendo che la produzione in giudizio del documento artefatto era da imputare esclusivamente al suo difensore, in quanto nel procedimento per il recupero del credito, non gli si poteva che attribuire il ruolo di parte. Il CNF, però, si era convinto della buona fede del difensore dell’avvocato “creativo” sulla base di un’articolata serie di prove indiziarie, ritenendo che di fatto quest’ultimo si fosse difeso in prima persona.
In tal senso, il CNF aveva valutato come decisivo non solo il ruolo attribuito al documento in discussione, ma anche il fatto che il difensore incaricato dall’incolpato ne condividesse lo studio professionale, così da esserne sotto il diretto e costante controllo. Da alcuni passaggi dell’atto di citazione era sorto addirittura il dubbio che fosse stato predisposto dallo stesso incolpato, il quale aveva poi assistito a quasi tutte le udienze del relativo giudizio, in sostituzione del proprio difensore, rinunciando infine al ricorso per cassazione solo dopo l’inizio del procedimento disciplinare.
Questi, appunto, i fatti storici e processuali posti all’attenzione della Cassazione.
Le Sezioni Unite, rilevato che il ricorso investiva un giudizio di merito del CNF, hanno ribadito l’ambito del proprio potere di valutazione nelle ipotesi di cui all’art 360 n. 5 c.p.c.. Gli ermellini hanno così ricordato come il vaglio della Cassazione sia circoscritto all’esame della coerenza logico-formale e della correttezza giuridica delle argomentazioni svolte da parte dei Giudici di merito.
Ciò detto, la Suprema Corte, nel rispetto dei summenzionati limiti, ha ritenuto corretta sotto il profilo logico-formale la decisione del CNF. Infatti, secondo le Sezioni Unite, le censure mosse dall’avvocato ricorrente erano esclusivamente di merito e non erano comunque tali da incidere né “sul tessuto logico del complesso ragionamento probatorio” né sulla congruità del ragionamentosvolto dal Consiglio nazionale forense.
a cura di Marco Ferrero