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giurisprudenza

La sanzione disciplinare tra reato penale e illecito deontologico (Cass., Sez. Un., 26 luglio 2022, n. 23239)

Il CNF irrogava ad un avvocato la sanzione disciplinare della sospensione per tre anni dall’esercizio della professione forense per la sussistenza di numerose violazioni del codice deontologico di cui agli artt. 9 co. II, 10, 17,30, 35.

In particolare veniva contestata l’appropriazione indebita di somme depositate fiduciariamente presso di lui da una società francese in vista della concessione di un mutuo, fatti che erano stati peraltro oggetto di un precedente procedimento penale (truffa aggravata), esitato in primo grado con la condanna del medesimo avvocato.

Con un unico motivo di ricorso in Cassazione – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 – 5, – il legale lamenta la violazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 56, e l’omessa motivazione (recte, omesso esame) dell’avvenuta prescrizione.

I giudici di legittimità preliminarmente ricordano come le fattispecie contestate anche se di rilevanza penale hanno natura disciplinare. Per tale ragione non possono essere richiamate sic et simpliciter le ben note categorie penalistiche per definire il carattere istantaneo ovvero permanente dei reati ascritti ai fini della disciplina sulla prescrizione.

Viceversa ricorda la Corte, le condotte contestate si inseriscono all’interno di un rapporto contrattuale professionale, soggetto, per il professionista, alle norme di deontologia forense, aspetto quest’ultimo determinante per riconoscere la continuità della violazione deontologica.

Nello specifico la natura permanente della violazione disciplinare è ravvisabile nell’impossessamento ingiustificato da parte dell’avvocato della somma custodita. Tale condotta non si esaurirebbe nella semplice percezione del denaro ma nel comportamento, protrattosi nel tempo, consistente nell’appropriazione indebita delle somme fiduciariamente depositate.

A sostegno di tale interpretazione la Corte ricorda di essersi già espressa in tal senso e di aver ribadito il carattere permanente di altre analoghe violazioni deontologiche (ex multis Cass. n. 14233 del 2020; Cass. Sez. U. 21 febbraio 2019, n. 5200; Cass. Sez. U. 30 giugno 2016, n. 13379).

Sul punto la motivazione della sentenza de qua va ben oltre andando ad individuare oltre al carattere permanente della violazione anche un “limite alternativo” alla “permanenza” dell’illecito disciplinare ossia un momento dal quale il termine prescrizionale inizia a decorrere, “giacché altrimenti ne deriverebbe una – irragionevole, non prevista dalla legge – imprescrittibilità dell’illecito stesso”.

Secondo la Corte nel caso di specie, in analogia alla consolidata giurisprudenza penale di legittimità (ex pluribus, Cass. Pen, n. 32220 del 2015), tale dies a quo deve essere individuato nella decisione disciplinare di primo grado adottata dal Consiglio Distrettuale di Disciplina l’11 maggio 2018.

Sulla base di tale indicazione la Corte respinge il ricorso per il carattere permanente dell’illecito non ancora prescritto secondo il termine prescrizionale massimo previsto dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 56, comma 3.

A cura di Brando Mazzolai