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giurisprudenza

Spetta soltanto all’Avvocatura dello Stato valutare la congruità del rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente (Cass., Sez. Un., 6 luglio 2015, n. 13861)

L’art. 18, comma 1, del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla l. 23 maggio 1997, n. 135 – il quale stabilisce che «[l]e spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato» – mira, per un verso, a tenere indenni i funzionari pubblici che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’amministrazione, sollevandoli dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento delle loro attività istituzionali; per un altro verso, a contenere gli oneri a carico delle casse pubbliche nei limiti di quanto è necessario a soddisfare la predetta finalità.
Ne deriva che, in sede di liquidazione del rimborso dovuto, la rimborsabilità delle spese legali sostenute dai dipendenti statali non può essere assoggettata alla determinazione pattizia tra il dipendente pubblico ed il difensore di fiducia dello stesso e neppure alla verifica del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, poiché necessita del parere di congruità rilasciato dall’Avvocatura dello Stato secondo i canoni di discrezionalità tecnica.
Infatti, secondo la Suprema Corte, sarebbe in palese contrasto con i principi di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost addebitare allo Stato una spesa di importo non controllabile.
A cura di Elisa Martorana