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giurisprudenza

Sulla sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado (Corte d’Appello di Firenze, Ord., 21 settembre 2010)

La Corte d'Appello di Firenze, con un ordinanza emessa il 21/9/2010 (Pres. Bellagamba, Cons. Rel. Materi, Cons. Dinisi), ha disposto la sospensione dell'esecutività di una sentenza di primo grado.
La sentenza in questione condannava un primario istituto di credito alla restituzione per indebito di una somma di denaro, rilevante ma non eclatante, in favore dell'attore.
La sentenza aveva accertato, con l'ausilio di una consulenza tecnica, che la banca aveva applicato interessi anatocistici e superiori al tasso di legge, in difetto di espressa pattuizione scritta fra le parti, condannandola alla restituzione.
Tutte le questioni oggetto del giudizio erano state risolte sulla base di norme chiare e giurisprudenza pacifica.
Al riguardo, onde avere un quadro completo della giurisprudenza della Corte d'Appello di Firenze e della sua evoluzione (o involuzione), di seguito sono riportate, alcune per intero, altre per estratto, alcune ordinanze precedenti al revirement nonché l'ordinanza in questione.
Andiamo a esaminare l'aspetto tecnico-giuridico della vicenda.
La sospensione può essere concessa quando ricorrono gravi motivi, pacificamente individuati nel fondamento del gravame (cd. fumus boni juris) e nel pericolo di danno interinale per il soccombente del primo grado (cd. periculum in mora).
Parte della dottrina ritiene che le due condizioni non abbiano pari dignità, nel senso che qualora l'impugnazione appaia manifestamente fondata, il fumus è di per sé sufficiente per fare accogliere l'istanza di inibitoria, mentre il periculum, da solo, non potrebbe risultare decisivo in difetto di elementi che facciano ritenere fondata l'impugnazione.
La teoria è, ictu oculi, totalmente infondata, poiché, se così stessero le cose, la legge non avrebbe richiesto i due requisiti per la concessione della sospensiva, ma, potendo fare a meno del periculum, si sarebbe limitata a richiedere al giudice del gravame una sommaria cognizione circa la fondatezza delle ragioni dell'appellante.
Ha invece preteso un'analisi anche del pregiudizio che il soccombente riceverebbe nelle more dell'appello, e, anche se non parla espressamente di periculum in mora (così come non parla di fumus boni juris), pare proprio che quest'ultimo motivo debba essere preponderante nella decisione del Collegio o, quantomeno, necessariamente presente.
Questo emerge dalla nuova dizione dell'art.283 c.p.c. che espressamente afferma che “il giudice dell'appello, su istanza di parte, proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione” e che differisce dalla versione ante 2005 esclusivamente per l'aggiunta che abbiamo evidenziato in grassetto.
Ora, se tutto l'articolo è rimasto immutato e il legislatore è intervenuto con l'unico scopo di aggiungere il requisito della possibilità di insolvenza di una delle parti, pare evidente che dal 2005 la Corte non possa più prescindere da tale valutazione per concedere la sospensiva.
Il che è comprensibile e l'inciso pare essere stato inserito dal legislatore come monito alle Corti d'Appello, quasi a ricordare loro che la sospensiva deve essere concessa solo in casi eccezionali, visto che la regola è che le sentenze di primo grado sono esecutive per legge e non per grazia dei giudici di secondo grado.
Tornando alla decisione della Corte d'Appello di Firenze, osserviamo come questa stravolga completamente i rigorosi precedenti della stessa Corte, presi come riferimento da tutta la giurisprudenza di merito e dalla dottrina.
Facciamo un breve excursus storico.
La Corte d'Appello di Firenze ha chiarito per prima, subito dopo la riforma che introduceva la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, quali fossero i binari su cui il giudice di secondo grado potesse muoversi, stabilendo che “l'indiscriminata ed automatica concessione di efficacia esecutiva a tutte le sentenze corrisponde a una precisa scelta operata dal legislatore al duplice – dichiarato – fine di conferire maggiore incidenza alla decisione giurisdizionale e di funzionare come deterrente nei confronti di impugnazioni infondate e dilatorie… Conseguentemente… i motivi di merito connessi all’esame della fondatezza dell’appello devono essere valutati con la cognizione sommaria propria di un provvedimento inibitorio urgente che viene emesso a modifica di un provvedimento – sentenza – conseguente ad un procedimento a cognizione piena; le ragioni connesse alla gravità, vanno invece esaminate con valutazione comparativa della posizione di entrambe le parti, tenendo presente rispettivamente non solo l’entità del beneficio e del pregiudizio immediato che deriverebbero alle parti dall’esecuzione della sentenza ma soprattutto l’eventuale rischio di entrambe di non poter riottenere gli utili effetti derivanti dalla decisione (ad esempio, per provata o presumibile possibilità di dispersione del patrimonio e per l’intrinseca natura della decisione) (App. Firenze, ord. 19.11.95, est. Carnesecchi)”.
Ancora, la Corte di Firenze si preoccupa di piantare dei paletti rigidi e chiari, anche riguardo al merito: “con riferimento alla valutazione del fondamento dell’impugnazione, questa deve essere fatta in senso restrittivo: nel senso cioè che non qualunque motivo di gravame il quale abbia una possibilità di accoglimento sarà sufficiente ad integrare la connotazione di ‘gravità’, ma soltanto quei motivi che abbiano una ragionevole alta probabilità di accoglimento e di condurre ad un mutamento della decisione come, ad esempio, un evidente errore di fatto, una evidente disapplicazione della norma di diritto applicabile alla fattispecie, un difetto di vocatio in jus, una mancanza del contraddittorio, etc. (App. Firenze, ord. 21/12/95, est. Calvisi)”.
Parametri tutti molto rigorosi, ma non a sufficienza, sempre secondo la stessa Corte di Firenze, che, l'anno successivo, si preoccupa di rafforzarli, affermando che “a) i gravi motivi di cui all’ art. 283 c.p.c. non possono essere confusi con il probabile esito positivo dell’appello proposto, ma devono consistere in un effetto ulteriore derivante dall’attesa della pronuncia definitiva sull’appello medesimo: al di fuori di che l’inibitoria si porrebbe in contrasto radicale colla esecutività immediata della sentenza di primo grado voluta dalla legge 353/90 nel correggere il contenuto degli artt. 282 e 337 c.p.c.; b) il rischio di non recuperare la somma perduta a seguito dell’esecuzione provvisoria (voluta come effetto normale ex lege) va ovviamente dimostrato da chi lo invoca… ma di per sé tale rischio… non è sufficiente ad impedire l’effetto dalla legge attribuito alla condanna di primo grado, pena una intrinseca contraddittorietà della nuova legislazione processuale (disporre o non disporre l’immediata esecutività della sentenza, significa appunto spostare dall’una all’altra delle parti in contesta il rischio del tempo necessario alla chiusura definitiva del processo); occorre invece che l’eventuale perdita della somma comporti ulteriori gravi conseguenze per il finale vincitore. (App. Firenze, ord. 8.7.96, est. Massetani)”.
Tutta questa ordinanza è evidenziata in grassetto, poiché rappresenta, o ha rappresentato fino ad oggi, un punto fermo cui tutti i giudici si sono attenuti.
Basti leggere l'ordinanza del 15/5/2007 (sempre Corte d'Appello di Firenze, dott. Chiari) che recita: “… ritenuto, quanto al fumus boni juris, che la sentenza impugnata non appaia affetta da vizi tali da rendere altamente probabile l'accoglimento dell'appello; ritenuto, quanto al periculum in mora, che gli importi cui è stata condannata l'odierna ricorrente, pur rilevanti, non appaiono tali da poter comportare danno irreparabile per una banca, né essendo stata provata la dedotta impossibilità, e nemmeno difficoltà, di recupero eventuale in caso di accoglimento dell'appello; ritenuta pertanto, l'insussistenza dei requisiti di legge… rigetta l'indicata istanza di sospensione”.
Come è possibile notare l'ordinanza che si commenta individua diversi presupposti discostandosi dal precedente orientamento.
Due sono gli aspetti a fondamento della decisione.
Punto primo, fumus boni iuris: a seguito di “sommaria indagine…, i motivi di appello appaiono meritevoli di attenta considerazione, quanto meno in merito alla dedotta prescrizione del credito nel periodo 1981-1995”.
Saltano agli occhi subito le differenze con la giurisprudenza antecedente.
Da una parte si richiede che la sentenza impugnata non appaia “affetta da vizi tali da rendere altamente probabile l'accoglimento dell'appello”; dall'altra – nel caso di specie – è sufficiente che “i motivi appaiano meritevoli di attenta considerazione, quantomeno in merito alla dedotta prescrizione del credito nel periodo 1981-95”.
Dunque nell'affermare la possibile parziale fondatezza dell'appello, implicitamente ne riconosce, nella sua delibazione sommaria, anche l'infondatezza per la rimanente parte.
Tuttavia, anziché riconoscere che manchi il requisito dell'”alta probabilità di accoglimento dell'appello” e respingere la richiesta di sospensiva, mantenendosi in linea con tutta la giurisprudenza precedente, la Corte si adagia sul fatto che “i motivi appaiano meritevoli di attenta considerazione”, e non ritiene neppure di sospendere l'esecutività della sentenza solo in parte, come è previsto dalla legge.
Ma è sul periculum in mora che si ha la grande e sorprendente novità.
La Corte ritiene, sotto tale profilo, “la intuitiva evidenza del danno, avuto riguardo alla notevole entità della somma per cui vi è condanna e ai tempi tecnici della eventuale restituzione”.
La diversità rispetto al precedente orientamento rileva sotto tre aspetti.
Uno: la Corte applica l'equazione matematica notevole entità della somma = evidenza del danno.
Due: la Corte prescinde totalmente dalle qualità, dal patrimonio, dal reddito, e dalla posizione sociale dell'appellato. Nel caso di specie era stato ampiamente dimostrato che l'appellato ricopre numerose cariche istituzionali retribuite di altissimo livello, è titolare di uno studio professionale assai stimato, è proprietario di immobili, nei suoi confronti non vi sono esecuzioni, né mobiliari né immobiliari, non vi sono decreti ingiuntivi né cause in cui sia convenuto. Ovviamente non è mai stato protestato né ha carichi pendenti. Al contrario, i soggetti di cui all'ordinanza sottoscritta dal dott. Chiari nel 2007, che definiremo “standard”, non erano proprietari di alcun bene, non avevano patrimonio e almeno uno di essi (cittadino libanese) era stato protestato. Dunque la Corte ha applicato un criterio oggettivo, basato esclusivamente sulla entità della somma, che, in questo caso, come del resto nell'ordinanza standard, è stata definita “rilevante”.
Tre: la Corte, infine, ritiene che il periculum in mora sia dato non tanto (e non più) dalla impossibilità o difficoltà del recupero, come si dice nell'ordinanza standard o in tutte le precedenti ordinanze, su cui proprio la Corte d'Appello di Firenze ha fatto scuola, ma semplicemente dai “tempi tecnici necessari all'eventuale restituzione”.
Non è chiaro da cosa la Corte desuma la necessità di questi “tempi tecnici” perché l'appellato eventualmente restituisca quanto dovuto al termine del giudizio di appello: si potrebbe intuire che, da ora in avanti, la Corte intenda adottare una sorta di “presunzione assoluta di non restituzione spontanea” e che, in ogni caso, non rilevando in alcun modo né l'impossibilità né la semplice difficoltà nel recupero delle somme, sembrerebbe perciò che, in caso di somme rilevanti, sia sufficiente che la restituzione non avvenga nell'immediatezza della sentenza; la “presunzione di non restituzione” farebbe il resto, rendendo così automatica la concessione della sospensiva a tutte le sentenze di primo grado che abbiano ad oggetto rilevanti somme di denaro.
Al riguardo, si sottolinea come, nel caso di specie, la banca si era rifiutata di pagare anche in forza della sentenza esecutiva del Tribunale di Firenze e del relativo precetto e si era reso necessario il pignoramento.
Questo aspetto, noto alla Corte, non è stato ritenuto però influente.
E, in effetti, a rigor di diritto, non avrebbe dovuto esserlo.
Tuttavia, con l'impostazione che ha dato la Corte, resta inspiegato perchè, anche ammesso e non concesso che una parte della sentenza avrebbe potuto essere riformata (ma per altra parte sarebbe comunque rimasta in piedi), la Corte abbia avuto maggiore preoccupazione di un “eventuale” ritardo nella restituzione di quanto ricevuto da parte dell'appellato, piuttosto che di un pagamento da parte della banca che ha già deliberatamente ignorato una sentenza esecutiva del Tribunale.
Un'ultima osservazione.
Nell'ordinanza viene inaspettatamente sospesa l'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, come richiesto dall'appellante.
Ma, essendo l'esecuzione già iniziata, la Corte avrebbe dovuto sospendere l'esecuzione e non l'efficacia esecutiva, che può, appunto, essere sospesa solo se l'esecuzione non è ancora stata promossa.
Alla luce di tutto quanto sopra, sembrerebbe che il mutamento giurisprudenziale della Corte sulla concessione della sospensiva sia radicale, con ciò aprendo una nuova frontiera nel mondo della inibitoria.

A cura di Francesco Cariti