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giurisprudenza

Sull’avvocato che dimentica di proporre appello (C.N.F., Sent., 28 febbraio 2023, n. 13)

Con la sentenza n. 13/2023, il C.N.F., facendo buon governo della normativa in tema di prescrizione dell’azione disciplinare, ha offerto interessanti spunti “interpretativi” per l’accertamento della responsabilità professionale dell’avvocato.

La fattispecie in sintesi: un avvocato impugnava la decisione della propria CDD con cui veniva riconosciuto responsabile (e gli veniva comminata la sanzione della censura) per la mancata proposizione dell’appello contro la sentenza di condanna del proprio cliente, pur avendone ricevuto l’incarico.

L’avvocato ricorrente impugnava quindi la predetta sentenza lamentando l’erroneità della stessa per non aver considerato utile la testimonianza resa dalla propria segretaria nel giudizio avanti la Corte Distrettuale, la quale era stata incaricata di depositare in cancelleria l’atto di appello; nella memoria difensiva integrativa, poi, invitava anche il Collegio a verificare la prescrizione dell’azione disciplinare.

La sentenza della CDD impugnata, per ciò che qui rileva, così motivava la condanna:

– a nulla rileva la testimonianza della segretaria la quale deduceva di aver depositato personalmente i motivi di appello nei termini di legge e di aver, invano, richiesto notizie dell’avvenuto deposito alla cancelleria nei mesi successivi; la stessa, precisava la CDD, non può essere coinvolta in un procedimento riservato a chi esercita la professione forense, assumendo al più la qualità di soggetto per mezzo del quale viene compiuta la violazione;

– inoltre, le dichiarazioni rese dalla segretaria erano inutilizzabili stante l’incompatibilità della stessa con l’ufficio di testimone, in quanto nella fattispecie si riteneva applicabile l’art.197 c.p.p. che  esclude il valore di testimonianza alla dichiarazione della “persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria”: ciò in conseguenza del fatto che il professionista risponde personalmente ex art. 7 Codice Deontologico Forense per responsabilità della propria collaboratrice nonchè per negligenza della medesima ex art. 2049 c.c.;

– nondimeno, neanche il presunto “smarrimento” dell’atto da parte della Cancelleria trovava attinenza al caso di specie: la Corte, difatti, rilevava che l’incolpato si era solo superficialmente, e con lentezza, occupato di reperire informazioni e/o conferme in ordine al predetto atto di appello mentre ben avrebbe potuto chiedere direttamente al dirigente preposto di verificare – nella giornata in cui il deposito veniva effettuato – quali e quanti atti fossero stati ricevuti e da quale cancelliere.

In conclusione, quindi, la CDD riteneva che l’appello, seppur in presenza di un formale incarico, non fosse in realtà mai stato proposto comminando quindi all’avvocato la sanzione della censura.

Il ricorrente, con la propria impugnazione, deduceva l’erroneità della sentenza nel limite in cui non considerava attendibile ed utilizzabile la testimonianza della segretaria per
incompatibilità della stessa con l’ufficio di testimone ai sensi dell’art. 197, comma 1, lettera c), del c.p.p. in quanto “persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria”: il ricorrente deduceva in proposito che, non pendendo alcun procedimento penale per la vicenda oggetto del giudizio disciplinare, il richiamo alla disciplina processualistica penale risultava inappropriato.

Conseguentemente, quindi, non essendoci possibilità di applicare la normativa processualpenalistica non poteva nemmeno parlarsi di un soggetto obbligato della pena pecuniaria nè tantomeno, in assenza di una causa civile, può richiamarsi l’art. 2049 c.c.

Nella memoria difensiva integrativa, depositata il 22.05.2022, il ricorrente, in via preliminare, invitava il Collegio a verificare, di ufficio, l’eventuale prescrizione dell’azione disciplinare.

Il C.N.F., esaminati gli atti di causa,  si è preliminarmente interrogato sulla effettiva prescrizione dell’azione disciplinare, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio a causa
della natura pubblicistica della materia e dell’interesse superindividuale dello Stato e della comunità intermedia, quale l’ordine professionale

Ed effettivamente, l’illecito di cui veniva incolpato il ricorrente era un illecito omissivo ad effetto istantaneo commesso nella data di passaggio in giudicato della sentenza non impugnata (gennaio 2014).

Orbene, a tale fattispecie trova applicazione la nuova disciplina della legge professionale la quale, all’art. 56, prevede che il termine di prescrizione dell’azione disciplinare sia di 6 anni dalla commissione dell’illecito deontologico e che, al netto di più interruzioni della prescrizione, comunque il termine massimo di prescrizione è di 7 anni e 6 mesi; ciò in conseguenza del fatto che il nuovo ordinamento professionale segue criteri di natura penalistica e non civilistica (sul punto, il C.N.F. richiama Cass. 32634/2022).

Il C.N.F., pertanto, preso atto che dalla data dell’illecito erano passati oltre 7 anni e 6 mesi, ha quindi dichiarato prescritta l’azione disciplinare.

A cura di Andrea Goretti