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Susanna Della Felice

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Lapo Mariani

parere

Avvocato. Assunzione di incarico e conflitto di interesse.

E' stato chiestoe un parere sulla possibilità di assumere un mandato professionale per la difesa di una cliente per l’attivazione di un’azione di riduzione contro il fratello, essendo ella stata pretermessa dalle disposizioni testamentarie del padre, avvocato deceduto da quasi quattro anni, nonché un’azione di simulazione della separazione personale, in cui è stato previsto il trasferimento di un’unità immobiliare in favore della moglie, poi deceduta e premorta al marito.
Il problema legato all’assunzione di tale mandato discende dal fatto che il professionista ha da anni costituito un’associazione professionale con altro professionista, la quale non intende occuparsi della vicenda, ma è stata collaboratrice nonché difensore del collega deceduto nel ricorso consensuale per separazione personale con cui egli, circa otto anni or sono, si separava dalla moglie.
Secondo la prospettazione del quesito, la necessità di intraprendere le suddette azioni nell’interesse della cliente prescinde da qualsiasi tipo di informazioni cui il professionista abbia avuto accesso in ragione del suo mandato professionale, ma deriva dall’esame del testamento lasciato dal padre, redatto anni dopo la separazione, da cui risulterebbe evidente che tale separazione non rispondeva alle reali intenzioni delle parti, tenute nascoste anche al proprio difensore dell’epoca.
La questione sottoposta deve essere valutata alla luce delle disposizioni sul conflitto di interesse di cui all’art.37 del codice deontologico e all’art.24 del nuovo codice di prossima entrata in vigore, secondo cui il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgono ad avvocati che siano partecipi della stessa associazione professionale. Come è noto, la previsione dell’art. 37 codice deontologico (divieto di prestare attività professionale in conflitto di interessi) risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato ma, altresì, alla loro apparenza; e ciò in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente, dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri, anche la dignità dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone. La disciplina in questione, pertanto, si proietta alla tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale; ciò giustifica la presunzione assoluta di conflitto di interessi, allorché il collegamento tra due avvocati, patrocinanti due parti aventi interessi configgenti, sia riconducibile ad un rapporto associativo ed anche solo all’utilizzo dei medesimi locali.
Occorre, tuttavia, esaminare se in relazione al caso specifico prospettato sussista o meno il conflitto di interessi, considerando l’associazione professionale come un centro di interessi unico in cui confluiscono le posizioni di tutti i partecipanti e, pertanto, nelle previsioni del codice deontologico i doveri dell’avvocato diventano i doveri di tutti gli avvocati appartenenti alla medesima associazione professionale. Come è altrettanto noto, l’art. 51, 1° c., cdf (ora art. 68 ncdf) costituisce una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto di interessi (cd conflitto anche solo potenziale e non necessariamente effettivo e reale), con l’effetto che per il perfezionamento dell’illecito deontologico, non richiedendosi necessariamente l’utilizzo delle conoscenze acquisite attraverso l’incarico congiunto precedentemente espletato, è sufficiente che l’attività del professionista, genericamente indicata dalla norma e non meglio specificata, sia intervenuta in qualsiasi modo nel processo di formazione della volontà comune espressa negli accordi di separazione.
Occorre, tuttavia, tener presente, conformemente a quanto stabilito dal CNF con la sentenza del 19 ottobre 2010, n.84, che la lettera dell’art. 37 CdF laddove prescrive che “(…) l’avvocato ha l’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando questa determina un conflitto con gli interessi di un proprio assistito
o interferisca con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale” è chiara nel denunciare che presupposto applicativo della disposizione è l’esistenza di un conflitto concreto ed attuale, non già ipotetico. Tale interpretazione è avallata dal canone II della medesima norma che, vietando all’avvocato di assumere la difesa di uno dei due coniugi contro l’altro quando in precedenza li abbia assistiti congiuntamente, introduce – secondo l’interpretazione corrente – una previsione speciale che dà rilevanza anche al conflitto solo potenziale (Cass. Sez. unite, 10.1.2006, n. 134); disposizione che non sarebbe stato necessario introdurre se veramente la norma generale, già di per sé, avesse dato rilievo anche ad un conflitto potenziale. Ritiene, pertanto, il CNF che la regola interpretativa da affermare è perciò quella per cui, tranne il caso contemplato dal canone II dell’art. 37, nel quale solo non è necessario verificare se la situazione di conflitto di interessi abbia avuto modo di manifestarsi in concreto, lì rilevando anche quella potenziale, in tutti gli altri casi il conflitto di interessi, per avere rilevanza disciplinare, deve essere concreto ed attuale e, pertanto, l’affermazione della relativa responsabilità è il risultato cui si perviene dopo aver riscontrato in che modo, attualmente e concretamente, il conflitto si sia manifestato. Tuttavia, l’art. 51, can. I, C.D.F. (ora 68 ncdf) vieta al professionista, che abbia congiuntamente assistito i coniugi in controversie familiari, di assumere successivamente il mandato per la rappresentanza di uno di essi contro l’altro. Tale previsione costituisce una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto d’interessi, non richiedendosi specificatamente l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza; pertanto, la norma non richiede che si sia espletata attività defensionale o anche di rappresentanza, ma si limita a circoscrivere l’attività nella più ampia definizione di assistenza, per l’integrazione della quale non è richiesto lo svolgimento di attività di difesa e rappresentanza essendo sufficiente che il professionista abbia semplicemente svolto attività diretta a creare l’incontro delle volontà seppure su un unico punto degli accordi di separazione o divorzio.
Ritiene il Consiglio che nella vicenda in esame, per le modalità prospettate, ricorra l’ipotesi di conflitto di interessi, trattandosi di vicenda incidente sulla separazione personale dei coniugi, rispetto alla quale l’erede assume la stessa posizione processuale del de cuius. Pertanto, ancorché la prova della simulazione della separazione si ricavi da un testamento successivo, mentre nel corso della propria prestazione professionale resa dalla collega associata molti anni prima, ella era ignara della circostanza rappresentata nel testamento, rimane il divieto assoluto da parte dell’avvocato, o di un collega legato da associazione professionale, che abbia assistito i coniugi di prestare la propria assistenza in favore di uno di essi, anche in controversie successive che riguardano gli eredi.