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Lapo Mariani

parere

Avvocato. Autorizzazione all’utilizzo del titolo di Mediatore familiare.

È stato richiesto se il Consiglio dell’Ordine possa autorizzare un avvocato ad utilizzare il titolo di “Mediatore familiare”, avendo il legale conseguito il Diploma di Master Universitario di II Livello in Mediazione Familiare e Comunitaria e il Certificato di idoneità all’esercizio della pratica della Mediazione Familiare in esito a un corso di formazione biennale.

Prima di tutto occorre precisare che non rientra nei compiti del Consiglio dell’Ordine rilasciare autorizzazioni all’uso di titoli professionali, posto che tale attività esula pacificamente dagli obblighi che la Legge Professionale, all’art. 29, individua per i consigli degli ordini circondariali.

Comunque, per quanto ancora interessa, l’uso del titolo di “mediatore professionale” e lo svolgimento della relativa attività può essere rilevante sia per verificare la compatibilità o meno di quest’ultima con la professione forense ex art. 18 Legge Professionale sia per verificare il rispetto del dovere di corretta informazione e quello del divieto di accaparramento della clientela ex artt. 35 e 37 del Codice Deontologico Forense, doveri che l’avvocato deve comunque rispettare.

Per quanto riguarda il primo profilo (compatibilità dell’attività di mediatore familiare con la professione di avvocato) non sembrano verificarsi cause di incompatibilità previste appunto dalla Legge Professionale. Sul punto si ritiene che sia ancora attuale il parere rilasciato dal Consiglio Nazionale Forense del 16.4.2008 n. 17, che questo Consiglio condivide e a cui intende dare continuità, secondo il quale non esiste di per sé incompatibilità tra la professione di avvocato e l’attività del mediatore familiare per i seguenti motivi:

– le ipotesi di incompatibilità devono essere di stretta interpretazione, posto che pongono sostanziali limitazioni ai diritti dei singoli;

– dal punto di vista oggettivo l’attività di mediazione familiare si configura come una generica prestazione di consulenza (di area psicologica, giuridica e sociale) autonomamente e liberamente richiesta dai committenti tendente a favorire il raggiungimento di accordi tra parti in conflitto;

– in tal senso essa appare compatibile ed anzi coerente con una tipologia caratteristica d’esercizio della professione legale;

– la mediazione familiare poi non è certamente inquadrabile tra le attività d’impresa ed è del tutto diversa dalla mediazione (art. 1754 e seguenti cc) alla quale fa riferimento l’art. 18 della legge professionale, finalizzata alla conclusione di affari e non alla soluzione di conflitti personali.

Per quanto riguarda poi il secondo profilo (rispetto del dovere di corretta informazione e del divieto di accaparramento della clientela) si ritiene che sia necessario che l’avvocato, che si voglia pubblicizzare anche come mediatore familiare o come esperto in mediazione familiare, rispetti comunque i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza e che non utilizzi il titolo con modalità non conformi a correttezza e decoro al fine di accaparrarsi la clientela. In sostanza, l’avvocato che si voglia pubblicizzare con questo titolo deve rispettare comunque gli artt. 35 e 37 del Codice Deontologico Forense.

In ogni caso, doverosamente, occorre precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense il “potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” (art 50 L.247/2012) e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quale esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione dei comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio anche per quanto riguarda l’elemento soggettivo.