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parere

Avvocato: circa l’obbligo del legale di astenersi dal testimoniare su circostanze apprese dall’ex cliente

Fatto e quesito

Viene sottoposto a questo Consiglio il seguente quesito: un avvocato ha tutelato congiuntamente due soggetti, marito e moglie, in una causa civile avente ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni. Dopo la conclusione della causa viene intimato da uno dei due coniugi quale testimone nel procedimento di separazione giudiziale tra i medesimi. L’avvocato chiede pertanto un parere circa la opportunità, necessità e obbligo di astenersi dal testimoniare.

Risposta al quesito

1. Nella fattispecie sottoposta all’esame di questo Consiglio viene in rilievo il canone deontologico previsto dall’art. 51 del Codice Deontologico Forense (c.d.f.), rubricato “La testimonianza dell’avvocato”.

L’articolo in commento prevede che:

“1. L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti.

2. L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.

3. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

4. La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.”

2. L’art. 51 c.d.f. prevede l’obbligo generale di astenersi dal deporre sia come persona informata sui fatti, che come testimone, salvo casi eccezionali, su fatti appresi nell’esercizio dell’attività professionale.

La ratio della norma “si fonda sulla necessità di garantire che, attraverso la testimonianza, il difensore non venga meno ai canoni di riservatezza, lealtà e probità cui è tenuto nell’attività di difesa, rendendo pubblici fatti e circostanze apprese a causa della sua funzione e coperte dal segreto professionale”. (CNF 8.10.2013 n. 172).

Qualora l’avvocato decida di testimoniare, sulla scorta del comma 3 dell’art. 51 del c.d.f., non potrà assumere il mandato e, se già assunto, dovrà rinunciarvi. Tale obbligo riguarda solo l’incarico cui attiene la testimonianza e non altri mandati eventualmente conferiti all’avvocato dal medesimo cliente e che sono estranei alla vicenda oggetto di deposizione.

La testimonianza deve quindi essere successiva alla conclusione del mandato professionale e deve riguardare circostanze estranee allo stesso [1].

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’obbligo di astensione dipende dall’esistenza di un mandato professionale con l’avvocato, specificando ulteriormente che: “quest’ultimo debba astenersi dal deporre come testimone su circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano inerenti al mandato ricevuto” [2].

La giurisprudenza disciplinare ha comunque opportunamente distinto nell’ambito dell’eventuale testimonianza dell’avvocato tra circostanze apprese nell’esercizio dell’attività professionale e circostanze coperte invece dal segreto professionale.

Il CNF ha poi precisato che “il segreto professionale costituisce al tempo stesso l’oggetto di un dovere giuridico dell’avvocato, la cui violazione è sanzionata penalmente (622 c.p.) e l’oggetto di un diritto dello stesso avvocato, che non può essere obbligato a deporre su quanto ha conosciuto per ragione del proprio ministero. Accanto a questo dovere e a questo diritto vi è però un ulteriore diritto del cliente a che il legale si attenga al segreto professionale e non sveli notizie apprese nel corso del mandato professionale. E tale diritto assume i connotati di un diritto fondamentale, quello di difesa, perché senza tale garanzia il diritto di difesa ne risulterebbe indebitamente e gravemente diminuito” [3].

In virtù di quella che ha ritenuto essere la ratio della norma contenuta nell’art 51 del c.d.f. il CNF ha tuttavia anche chiarito che “il dovere di riservatezza dell’avvocato è posto esclusivamente a tutela della sfera privata del cliente o parte assistita e non anche di quella della controparte” (C.N.F. sentenza del 10 giugno 2014, n. 84).

Si può dunque sostenere che la ratio  del divieto di testimonianza dell’avvocato posto dall’art. 51 c.d.f. riguarda  la necessità di garantire l’integrità e l’effettività del diritto di difesa della parte assistita dal professionista, nonché l’inopportunità di agire nello stesso giudizio in qualità di difensore e testimone. Non è oggetto di tutela il diritto alla riservatezza o alla difesa della controparte della parte assistita (o del cliente o dell’ex cliente).

Nel caso di specie, però, sia l’intimante che la controparte risultano essere stati clienti del professionista che, come specificato nel quesito, pur non sapendo allo stato su quali fatti viene chiamato a testimoniare, ammette di poter avere appreso circostanze e informazioni riguardanti i coniugi durante l’esercizio della propria attività professionale.

3. Pare inoltre opportuno precisare che la dizione dell’attuale art. 51 c.d.f. fa riferimento a “casi eccezionali” per giustificare l’eventuale decisione dell’avvocato di rendere la propria testimonianza. Tale dizione è diversa e più restrittiva rispetto a quella del precedente art. 58 del codice abrogato – che faceva riferimento all’obbligo per l’avvocato di astenersi dal testimoniare “per quanto possibile”.

La scelta del legislatore deontologico di mutare il testo della norma che pone per l’avvocato il divieto di testimoniare potrebbe rendere preferibile un’interpretazione che limita ai soli casi eccezionali la possibilità dell’avvocato di rendere testimonianza su “circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti”. Ciò indipendentemente da ogni indagine sulla ratio della norma che, nell’interpretazione dell’art. 58 del vecchio codice deontologico, il Consiglio Nazionale Forense aveva rintracciato nella tutela dell’effettività e integrità del diritto di difesa della parte assistita, leggendo quindi l’obbligo di astenersi dal testimoniare come strumentale alla tutela del diritto/obbligo alla riservatezza e al segreto professionale di cui all’art. 9 del precedente c.d.f. (attuale art. 13 c.d.f. vigente).

L’attuale collocazione dell’art 51 c.d.f. nel Titolo IV del Codice Deontologico Forense, fra i “Doveri dell’Avvocato nel Processo”, potrebbe inoltre indurre a ritenere che l’interesse tutelato dalla norma sia l’integrità (e la credibilità) del “processo” in quanto tale, piuttosto che l’effettività e la pienezza del diritto di difesa della parte assistita dall’avvocato, cosicché si potrebbe ritenere che il divieto posto dall’art. 51 c.d.f. sia assoluto e che l’avvocato non possa mai deporre su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale, salvo casi eccezionali.

4. Ai sensi dell’art. 200 c.p.p. (richiamato dall’art. 249 c.p.c.) poi, l’Avvocato ha facoltà di astenersi dal deporre come testimone “su quanto ha(nno) conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione”. Ciò comporta per l’avvocato l’esclusione dell’obbligo di rendere testimonianza su tutto ciò che ha formato oggetto della sua conoscenza per ragione di un determinato incarico.

Conclusioni

Per quanto sopra detto e argomentato si può ritenere che:

1.   l’avvocato chiamato a rendere testimonianza su fatti e circostanze che ha conosciuto in ragione del proprio ufficio ha un dovere deontologico di astenersi dal testimoniare.

2.   in assenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia definito in via interpretativa gli esatti confini di applicabilità e la ratio ispiratrice dell’art. 51 del nuovo c.d.f., pare prudente un’interpretazione restrittiva che limiti la possibilità dell’avvocato di deporre in qualità di testimone su fatti appresi nell’esercizio del proprio mandato a “casi eccezionali”.

3.   sulla definizione di cosa debba intendersi per “caso eccezionale” non vi sono tuttavia pronunce giurisprudenziali, né il Consiglio ha l’autorità per riempire di contenuto concreto tale locuzione.

 Ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.

 

NOTE

[1] Cfr. Cassazione a Sezioni Unite n. 22253/2017.

[2] Cfr. Cassazione Penale, sez. VI. 02 aprile 2013, n. 15003.

[3] Cfr. parere n. 9 del 9 maggio 2007