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parere

Avvocato: circa l’obbligo di osservare il segreto professionale

1.  Quesito.

Un avvocato, che assiste una società in relazione ad alcune contestazioni che essa ha ricevuto da parte dell’Agenzia delle Entrate, riceve un invito da parte della Polizia Giudiziaria per l’acquisizione di sommarie informazioni testimoniali nell’ambito delle indagini penali a carico degli amministratori della società sua cliente.

L’avvocato chiede preliminarmente un parere a questo Consiglio sulla applicabilità del segreto professionale al caso di specie.

2. Norme Rilevanti e giurisprudenza

Ai fini della risposta al quesito vengono in rilievo l’art. 28 del codice deontologico forense (d’ora in poi c.d.f.), nonché l’art. 6 della l. 247/2012 sulla “Nuova disciplina dell’Ordinamento della professione forense”.

Stabilisce in particolare l’art. 28 c.d.f. che:

“1. È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

2. L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato.

(…)

4. È consentito all’avvocato derogare ai doveri di cui sopra qualora la divulgazione di quanto appreso sia necessaria: a) per lo svolgimento dell’attività di difesa; b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità; c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita; d) nell’ambito di una procedura disciplinare. In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato.

5. La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura e, nei casi in cui la violazione attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni”.

Parimenti, l’art. 6 della l. 247/2012 stabilisce che:

“1.  L’avvocato è tenuto verso terzi, nell’interesse della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e del massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale.

(…)

3.  L’avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti non possono essere obbligati a deporre nei procedimenti e nei giudizi di qualunque specie su ciò di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio della professione o dell’attività di collaborazione o in virtù del rapporto di dipendenza, salvi i casi previsti dalla legge.

4.  La violazione degli obblighi di cui al comma 1 costituisce illecito disciplinare. La violazione degli obblighi di cui al comma 2 costituisce giusta causa per l’immediato scioglimento del rapporto di collaborazione o di dipendenza”.

In una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha stabilito che: “Il divieto sancito dall’art. 28 cdf non è circoscritto alle informazioni che l’avvocato conosce direttamente dal cliente e dalla parte assistita, bensì investe anche le informazioni, concernenti cliente e parte assistita, delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato, quindi pure quelle che l’avvocato apprenda dagli atti di difesa della propria controparte” (così Cass. SS.UU, 23 aprile 2021, n. n. 10852).

Il Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi “CNF”) si è trovato in più occasione a doversi pronunciare sull’interpretazione delle norme in materia di segreto professionale stabilendo in particolare, per quel che rileva nel caso in esame che:

E ancora: Il professionista è tenuto a mantenere il segreto ed il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato. Elementi del relativo illecito disciplinare sono quindi, da un lato, l’esistenza di un mandato professionale tra cliente e professionista e, dall’altro, che le notizie siano state riferite dal proprio assistito in funzione del mandato ricevuto. (C.N.F. pres. Mascherin, rel. Del Paggio, sentenza n. 60 del 16 luglio 2019).

Il segreto professionale è uno dei principi e dei doveri fondamentali cui deve ispirarsi l’attività dell’avvocato e sul quale il cliente deve essere certo di poter contare, al pari, od ancor prima, della probità, dignità, decoro ed indipendenza; il legislatore ne ha preso atto persino nell’ambito del processo penale, notoriamente finalizzato alla tutela pubblica; (…).

Ad analoghe conclusioni si perviene allorché ci si chieda se l’avvocato debba consegnare la documentazione in suo possesso, affidatagli dal cliente: tutto ciò che è “pubblico”, siccome agli atti di un processo attinente all’attività d’impresa, può e deve essere consegnato, al pari di quanto avverrebbe nella ipotesi di revoca del mandato e nomina di un nuovo difensore (artt.33 e 48 co. 3° C.D.F.); la documentazione e la corrispondenza che esulino dai “processi” o attengano a “cause personalissime”, va singolarmente valutata a tutela ed in ossequio al principio di riservatezza. (C.N.F. rel. Amadei, parere del 18 aprile 2018, n. 16.

3.  Conclusioni

Poiché nel caso in esame non risultano integrati gli estremi di alcuna delle eccezioni previste dall’art. 28 c.d.f. all’obbligo di osservare il segreto professionale, si deve ritenere che l’avvocato, qualora gli vengano richiesti, anche dall’Autorità giudiziaria, documenti rilevanti, sommarie informazioni testimoniali e testimonianze possa e debba opporre il segreto professionale e legittimamente rifiutarsi di consegnare e fare quanto richiesto, essendo a ciò legittimato e obbligato non solo dal codice deontologico della propria professione, ma anche dall’art. 6 della l. 247/2012.

Ciò detto circa il quesito, ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.