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parere

Avvocato. Diritto di difesa ed espressioni sconvenienti.

E' stato chiesto quali siano i limiti entro cui sia lecito spingersi nell’esercizio del diritto di difesa senza incorrere nella violazione dell’art. 20 del codice deontologico.

Secondo l’orientamento assunto al riguardo dal Consiglio Nazionale Forense, il limite di compatibilità delle esternazioni verbali o verbalizzate e/o dedotte nell’atto difensivo dal difensore con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale, oltre il quale si prefigura la violazione dell’art. 20 del c.d., va individuato nella intangibilità della persona del contraddittore. Pertanto, si rientra nella sfera del lecito quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte e le opposte tesi dibattute, potendosi ammettere anche crudezza di linguaggio e asperità dei toni. Tuttavia, quando la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo, l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti. (cfr. Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 29 novembre 2012, n. 159).

Di conseguenza, violano l’art. 20 del c.d. le espressioni usate dal professionista che rivestono un carattere obiettivamente sconveniente ed offensivo e che si situano ben al di là del normale esercizio del diritto di critica e di confutazione delle tesi difensive dell’avversario, per entrare nel campo, non consentito dalle regole di comportamento professionale, del biasimo e della deplorazione dell’operato dell’avvocato della controparte, dovendo peraltro ritenersi implicito l’“animus iniuriandi” nella libera determinazione di introdurre quelle frasi all’indirizzo di un altro difensore in una lettera ed in un atto difensivo. (cfr. Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 21 dicembre 2009, n. 185).
In particolare, sono state di recente ritenute in contrasto con l’art. 20 c.d. le accuse al Collega o al Giudice di ignorare la scienza giuridica, di svolgere con superficialità la professione e di scrivere per anacoluti giuridici, ovverosia ricorrendo a ragionamenti privi di giuridico costrutto, in quanto volte a negare, direttamente, le capacità intellettuali, culturali e professionali della persona e, come tali, gratuitamente offensive. (cfr. Consiglio Nazionale Forense sentenza 15 ottobre 2012, n. 140).
Il Consiglio Nazionale Forense sempre recentemente ha ritenuto che l’’avvocato ha il diritto/dovere di dissentire dalle affermazioni avversarie, sottolineandone l’infondatezza giuridica anche con crudezza ed asperità, ma senza tuttavia ricorrere ad espressioni che si risolvono in un giudizio di assoluto disvalore con una connotazione del tutto negativa circa le qualità personali, morali e professionali della controparte, avvocato o parte che sia, portando così la vicenda sul piano personale e soggettivo attraverso un lessico volgare assolutamente non funzionale alle difese (Nel caso di specie, in applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto deontologicamente rilevante il comportamento dell’avvocato che si era riferito alla strategia difensiva avversaria con le espressioni: “scorretta, dolosa, indegna, sistematica mistificazione della realtà, arroganza, protervia, senza vergogna”). (cfr. Consiglio Nazionale Forense , sentenza 22 settembre 2012, n. 122).
Inoltre, l’espressione «arcane motivazioni», utilizzata in un atto processuale dal difensore per spiegare i ripetuti rinvii della discussione richiesti dal Collega che lo abbia preceduto nella difesa in giudizio della medesima parte, è stato ritenuto diretto a sollevare dubbi sul comportamento processuale del professionista, superando i limiti della continenza alla quale l’avvocato è tenuto specie nei rapporti con i colleghi. (cfr. Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 18 luglio 2011, n. 109).
Sempre il Consiglio Nazionale Forense ha ritenuto che il termine “menzogna”, il cui significato semantico lo rende omologo all’alterazione dei fatti, viene dalla scienza del linguaggio considerato meno popolare e meno grave di quello di “bugia”, mentre il “vaniloquio” è il discorso privo di costrutto o fondamento logico-sostanziale. A nessuna delle due espressioni può pertanto essere attribuita portata offensiva o natura sconveniente.
E’ stata esclusa, pertanto, la violazione dell’art. 20 c.d.f. per carenza del necessario elemento soggettivo dell’animus iniuriandi quando non emerga alcun elemento indicativo della volontà dell’incolpato di esprimere apprezzamenti negativi in ordine alla personalità ed al patrimonio morale dell’esponente, essendosi il professionista limitato alla constatazione oggettiva di un fatto non vero e di un giudizio privo di fondamento. (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 13 dicembre 2010, n. 215)
Viceversa, costituisce comportamento certamente disdicevole, e, quindi, disciplinarmente rilevante, l’aver attribuito ad un Collega l’intento «di aver perseguito (nel corso della difesa espletata per conto dell’incolpato) personalissimi, miseri, se non vili interessi di bottega», trattandosi di condotta che, trascendendo i limiti di continenza e pertinenza della critica consentita, e trasmodando quindi in un attacco alla sfera privata della altrui persona, si pone ben al di là di un corretto e leale contraddittorio, infrangendo i limiti di decoro e di dignità imposti dall’etica professionale.(Consiglio Nazionale Forense sentenza del 9 giugno 2008, n. 44).
Le sentenze richiamate evidenziano i limiti entro i quali è possibile esercitare il diritto di difesa, evidenziando correlativamente le ipotesi in cui si incorre nella violazione dell’art.20 del codice deontologico forense.