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parere

Avvocato. Incompatibilità per l’ordinamento professionale forense italiano lo svolgimento di attività professionale nella forma del rapporto di lavoro dipendente che non rientri nelle deroghe espressamente disciplinate dall’art.3 del r.d.l. n. 1578 del 1933.

E’ stato chiesto se sussiste una causa di incompatibilità ex artt. 3 e 37 R.D. n.1587/1933 a carico di un avvocato che, acquisita l’abilitazione professionale in Italia e iscritto al relativo albo, voglia esercitare la professione forense come avvocato legato da un contratto di lavoro subordinato ad uno studio legale in un paese membro dell’Unione Europea, ove ciò è lecito sulla base della normativa di riferimento, nonché contemporaneamente in Italia, mantenendo l’iscrizione presso un albo italiano.
Il Consiglio dell’Ordine, ha precisato che in tema di ordinamento professionale forense, la ratio della disciplina delle incompatibilità è quella di garantire l'autonomo e indipendente svolgimento del mandato professionale, sicché, ai fini dell'incompatibilità tra la professione di avvocato ed ogni impiego retribuito, non rileva la natura, subordinata o autonoma, del rapporto di lavoro, bensì la sua relativa stabilità e, quando non si tratti di prestazioni di carattere scientifico o letterario, la sua remunerazione in misura predeterminata, in ragione della continuità del rapporto professionale.
Conseguentemente, deve ritenersi causa di incompatibilità per l’ordinamento professionale forense italiano lo svolgimento di attività professionale nella forma del rapporto di lavoro dipendente che non rientri nelle deroghe espressamente disciplinate dall’art.3 del r.d.l. n. 1578 del 1933, estranee alla fattispecie concreta oggetto dell’odierno esame.
Né potrebbe utilmente invocarsi, a sostegno della tesi opposta la direttiva n.98/5/CE, giacché l’art.6 di tale disciplina normativa prevede l’obbligo del rispetto delle norme professionali e deontologiche dello Stato all’interno del quale l’attività viene esercitata, anche se ciò dovesse avvenire con il titolo di origine.
Inoltre, non potrebbero determinarsi neppure ipotesi di discriminazione a rovescio a danno degli iscritti in Italia quale Stato di origine, giacché, secondo il tredicesimo considerando della predetta direttiva gli avvocati possono, indipendentemente dalla loro qualifica di liberi professionisti o di lavoratori subordinati nel loro Stato di origine, esercitare la professione nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato nello Stato membro ospitante se e in quanto quest’ultimo offra tale possibilità ai propri avvocati.
Nel caso specifico, per quanto concerne i profili penalistici legati all’applicazione dell’art. 348 cp, il Consiglio ritiene esclusivamente di segnalare, per quanto di sua competenza, che la pronuncia sull’incompatibilità non riveste carattere dichiarativo, ferma restando la valutazione che potrà essere compiuta in sede penale sia sull’elemento oggettivo sia sull’elemento soggettivo del reato.
Occorre, segnalare, infine che la situazione descritta può integrare, qualora ne ricorrano i presupposti, la violazione degli artt. 16 e 24 del codice deontologico anche per quanto riguarda i soggetti che hanno agevolato consapevolmente lo svolgimento dell’attività professionale nei modi siffatti.