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Susanna Della Felice

Coordinatore di Redazione:

Lapo Mariani

parere

Avvocato: la morte del cliente non comporta la cessazione del vincolo al segreto professionale

1. Quesito

Un avvocato che ha assistito professionalmente un cliente poi deceduto viene invitato a deporre in relazione alle condizioni psichiche del de cuius per il tempo in cui ebbe a che fare col cliente e in relazione al fatto che il de cuius gli avesse manifestato le proprie intenzioni circa le disposizioni testamentarie nei confronti del figlio.

Il legale domanda a questo Consiglio se, stante il vincolo del segreto professionale verso il cliente defunto, a tale obbligo sia tenuto anche verso il figlio che, quale erede, è subentrato in universum ius.

2. Norme Rilevanti e orientamenti del Consiglio

Ai fini della risposta al quesito vengono in rilievo gli artt. 28 e 51 del codice deontologico forense (d’ora in poi c.d.f.), nonché l’art. 6 della l. 247/2012 sulla “Nuova disciplina dell’Ordinamento della professione forense”.

Stabilisce in particolare l’art. 28 (Riserbo e segreto professionale) c.d.f. che:

1.   È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.

2.   L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato.

3.   (…)

4.   È consentito all’avvocato derogare ai doveri di cui sopra qualora la divulgazione di quanto appreso sia necessaria: a) per lo svolgimento dell’attività di difesa; b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità; c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita; d) nell’ambito di una procedura disciplinare. In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato.

5.   La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura e, nei casi in cui la violazione attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni”.

Stabilisce l’art. 6 (Segreto professionale) della l. 247 del 2012:

“1.  L’avvocato è tenuto verso terzi, nell’interesse della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e del massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese nell’attività di rappresentanza e assistenza in giudizio, nonché nello svolgimento dell’attività di consulenza legale e di assistenza stragiudiziale.

2. (…)

3.  L’avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti non possono essere obbligati a deporre nei procedimenti e nei giudizi di qualunque specie su ciò di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio della professione o dell’attività di collaborazione o in virtù del rapporto di dipendenza, salvi i casi previsti dalla legge”.

Stabilisce l’art. 51 (Testimonianza dell’avvocato) del c.d.f. che:

1.   L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti.

2.   L’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.

3.   Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo.

4.   La violazione dei doveri di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.

Il Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi “CNF”) si è trovato in più occasioni a doversi pronunciare sull’interpretazione delle norme in materia di segreto professionale stabilendo in particolare, per quel che rileva nel caso in esame che:

Il dovere di segretezza e riservatezza non cessa alla conclusione dell’incarico ma persiste anche dopo la conclusione dello stesso” (CNF – pres. Mascherin, rel. Merli -, sentenza del 31 dicembre 2016, n. 395).

E ancora: Il professionista è tenuto a mantenere il segreto ed il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato. Elementi del relativo illecito disciplinare sono quindi, da un lato, l’esistenza di un mandato professionale tra cliente e professionista e, dall’altro, che le notizie siano state riferite dal proprio assistito in funzione del mandato ricevuto. (C.N.F., sentenza n. 60 del 16 luglio 2019).

In più occasioni questo Consiglio ha ribadito il proprio orientamento in merito al divieto di testimonianza dell’avvocato sostenendo che:

1.     l’avvocato chiamato a rendere testimonianza su fatti e circostanze che ha conosciuto in ragione del proprio ufficio ha un dovere deontologico di astenersi dal testimoniare.

2.     in assenza di un orientamento giurisprudenziale che abbia definito in via interpretativa gli esatti confini di applicabilità e la ratio ispiratrice dell’art. 51 del nuovo c.d.f., pare prudente un’interpretazione restrittiva che limiti la possibilità dell’avvocato di deporre in qualità di testimone su fatti appresi nell’esercizio del proprio mandato a “casi eccezionali”.

3.     sulla definizione di cosa debba intendersi per “caso eccezionale” non vi sono tuttavia pronunce giurisprudenziali, né il Consiglio ha l’autorità per riempire di contenuto concreto tale locuzione.

3. La giurisprudenza del CNF

  Sul merito del quesito formulato esiste un precedente giurisprudenziale relativo al codice deontologico abrogato (il cui art. 9 disciplinava il segreto professionale e il cui art. 58 disciplinava la testimonianza dell’avvocato nel processo) le cui norme in merito di segreto professionale ricalcavano nella sostanza quelle del codice attualmente in vigore. Per quanto riguarda il divieto di testimonianza invece, la formulazione del testo dell’attuale art. 51 cdf appare più restrittiva di quella del precedente art. 58 cdf : il primo ammette la testimonianza solo in casi eccezionali, mentre il secondo la vietava “per quanto possibile”. Si può dunque ritenere che il parere CNF del 2007 mantenga la sua piena validità anche sotto il vigore del codice attuale.

  Nella parte rilevante per il caso in esame il parere del Consiglio Nazionale Forense n. 9 del 9 maggio 2007 così recita:

   “Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe essere considerata con particolare cautela la questione della eventuale rilevanza della volontà del cliente – o di chi gli succede nella titolarità delle relative posizioni giuridiche – ai fini della permanenza in capo all’avvocato del relativo obbligo di segretezza, dovendosi piuttosto concludere, in via generale, nel senso della non ‘disponibilità’ del diritto al segreto professionale. Quale valore fondamentale dello Stato di diritto nell’Unione europea, il segreto professionale non dovrebbe insomma configurarsi come diritto disponibile dal cliente, bensì come istituto giuridico complesso, segnato da esigenze di protezione che trascendono le singole situazioni giuridiche soggettive di volta in volta coinvolte.

In questa cornice si inscrivono le norme deontologiche direttamente rilevanti nel caso in esame: l’art. 58, in forza del quale, «Per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto», e ovviamente, l’art. 9, ai sensi del quale «È dovere, oltreché diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato»; è bene ricordare altresì che la cessazione del mandato non estingue il segreto, come è confermato dal primo canone dello stesso art. 9, per il quale «L’avvocato è tenuto al dovere di segretezza e riservatezza anche nei confronti degli ex clienti, sia per l’attività giudiziale che per l’attività stragiudiziale». La morte del cliente, dunque, come nel caso di specie, non comporta certo la cessazione del vincolo al segreto professionale.

Così ricostruito l’istituito nella sua collocazione ordinamentale, nonché alla luce delle norme deontologiche rilevanti, resta pertanto da considerare l’oggetto del dovere di riserbo. Alla luce della ampia formulazione del citato articolo 9, che contempla le circostanze apprese nell’esercizio del mandato, pare potersi dire che l’avvocato sia tenuto al riserbo con riferimento certamente all’attività prestata (giudiziale o stragiudiziale che sia), ma anche alle informazioni eventualmente assunte dalla parte assistita, o comunque conosciute in ragione del mandato. Potrebbe pertanto ritenersi ammissibile, sotto il profilo deontologico, una testimonianza avente ad oggetto non elementi di fatto, obiettivamente apprezzabili, ma elementi soggettivi, relativi alle intenzioni e/o alla volontà manifestate dall’assistito, anche se, sotto il profilo processuale, forte sarebbe il rischio della inammissibilità di una testimonianza implicante un giudizio, Parimenti potrebbe considerarsi ammissibile sotto il profilo deontologico (ma con la medesima rischiosa conseguenza in ordine alla inammissibilità processuale) la deposizione dell’avvocato avente ad oggetto la propria soggettiva opinione circa la volontà dell’ex cliente, in quanto così facendo l’avvocato svelerebbe non un dato oggettivo del cliente o ex cliente, bensì un dato soggettivo relativo a sé stesso.

Deve poi da ultimo rilevarsi come certamente prosegua in capo a ciascun erede disgiuntamente la titolarità della posizione giuridica attiva vantata dal cliente defunto ed avente ad oggetto la pretesa giuridicamente azionabile a che l’avvocato si attenga al segreto professionale” (enfasi aggiunta).

Le conclusioni del CNF sembrano a questo Consiglio condivisibili.

4. Conclusioni

Alla luce di quanto illustrato si deve ritenere che:

1.   l’avvocato chiamato a rendere la sua testimonianza in giudizio non sia tenuto a deporre e debba astenersi dal deporre su fatti e circostanze apprese nel corso del proprio mandato salvo che ricorrano circostanze eccezionali. Su cosa debba intendersi per “circostanza eccezionale” la norma non si esprime e la giurisprudenza è a oggi ancora praticamente inesistente;

2.   la morte del cliente fa passare il diritto azionabile a che l’avvocato mantenga il segreto professionale in capo agli eredi;

3.   costituiscono oggetto di segreto professionale l’attività prestata (giudiziale o stragiudiziale che sia) e le circostanze di fatto che ne hanno costituito l’oggetto, ma anche tutte le informazioni eventualmente assunte dalla parte assistita, o comunque conosciute in ragione del mandato.

Ciò detto circa il quesito, ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.