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Susanna Della Felice

Coordinatore di Redazione:

Lapo Mariani

parere

Avvocato: non esiste una norma deontologica che impedisca all’avvocato, collega di studio del testimone, di assumere la difesa della parte nel giudizio in cui è chiamato a deporre il testimone. Occorre tuttavia valutare attentamente la possibilità che l’assunzione del mandato difensivo da parte del collega di studio del testimone possa compromettere la valutazione di attendibilità del testimone stesso

1. Fatto e quesito. Un avvocato facente parte di una Associazione Professionale ha assis¬to di persona ad un sinistro, intervenendo anche in soccorso del danneggiato.

Il danneggiato viene poi ad essere patrocinato nel giudizio civile per il risarcimento dei danni da un altro componente dello Studio Associato.

Si chiede a questo Consiglio se l’avvocato che ha assis¬to al fatto possa tes¬timoniare nel processo civile rela¬tivo alla richiesta danni, oppure se vi sia incompati¬bilità in ragione di un possibile ‘interesse nella causa’, in quanto facente parte dello Studio Associato al quale saranno liquidate le ‘spese legali’ in caso di vittoria nella causa o di riconoscimento della responsabilità in capo al danneggiante. Ed ancora, si chiede se la testi¬monianza in questione possa rientrare nei divie¬ti previs¬ti dall’art. 58 Codice deontologico forense.

2. Norme rilevanti e giurisprudenza. Sono norme rilevanti per la risposta al quesito sopra esposto gli artt. 2 e 55 del Codice deontologico forense (d’ora in poi “c.d.f.”).

L’art. 2, rubricato – Norme deontologiche e ambito di applicazione stabilisce al comma 1:

“Le norme deontologiche si applicano a tutti gli avvocati nella loro attività professionale, nei reciproci rapporti e in quelli con i terzi; si applicano anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense”.

L’art. 55, rubricato – Rapporti con i testimoni e persone informate stabilisce al comma 1:

“L’avvocato non deve intrattenersi con testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del procedimento con forzature e suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”

È altresì rilevante per rispondere al quesito in esame l’art. 255 del c.p.c., dal quale si ricava l’esistenza di un obbligo per ogni cittadino di presentarsi e testimoniare a seguito del ricevimento della relativa intimazione.

3. La testimonianza dell’avvocato che abbia assistito ai fatti in qualità di privato cittadino e non in occasione dell’espletamento di un mandato professionale. Dalla lettura dell’art. 2 c.d.f. si ricava che, come è ovvio, le norme deontologiche si applicano all’avvocato nello svolgimento della sua attività professionale e, salvo l’obbligo di non porre in essere comportamenti che possano danneggiare l’immagine e il decoro della professione forense (doveri previsti, insieme a quelli relativi all’immagine e al decoro personale, anche dal comma 2 dell’art. 9 c.d.f.), non regolano le condotte che l’avvocato ponga in essere non come professionista, ma come privato cittadino.

L’art. 51 c.d.f., che riguarda la testimonianza dell’avvocato, non si applica pertanto al caso dell’avvocato chiamato a testimoniare su ciò che egli conosca in qualità di privato cittadino in un giudizio nel quale egli non abbia mai operato in virtù di un preciso mandato professionale. Quest’ultimo, a differenza dell’avvocato che sia chiamato a testimoniare su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale, è anzi tenuto, come tutti i cittadini, a presentarsi in giudizio per rendere la propria deposizione.

Alla fattispecie concreta descritta nella richiesta, in cui è il collega di studio del testimone ad aver assunto il mandato professionale, non si può altresì ritenere che sia applicabile neanche l’art. 246 c.p.c. che stabilisce che “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”. Tale norma è interpretata dalla giurisprudenza facendo riferimento all’interesse definito dall’art. 100 c.p.c. per escludere l’incapacità a testimoniare di coloro che nella controversia abbiano un interesse di mero fatto a che la controversia sia decisa in un certo modo. Si è invece affermata l’incapacità di testimoniare per chi abbia nella causa un interesse personale, concreto ed attuale e tale da legittimare la sua partecipazione in giudizio con l’intervento principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente (1).

Nei termini indicati pertanto il quesito è mal posto, poiché non contempla la possibilità che nel caso concreto i divieti richiamati riguardino non l’avvocato/cittadino che ha assistito al sinistro ed è chiamato a testimoniare, bensì il collega che fa parte della medesima associazione professionale il quale abbia assunto la difesa della parte nel giudizio.

4. L’assunzione del mandato professionale da parte dell’avvocato collega di studio in associazione professionale con il testimone. Stante quanto detto sopra, occorre valutare se le norme deontologiche prevedano divieti o incompatibilità per l’avvocato che abbia assunto un mandato professionale consapevole del fatto che un suo collega di studio, in associazione professionale, dovrà rendere testimonianza nel giudizio nel quale è coinvolto il suo cliente.

Il Consiglio Nazionale Forense (d’ora in poi “CNF”) nelle proprie sentenze in applicazione dell’art. 55 c.d.f. ha più volte ribadito che “l’avvocato deve evitare di intrattenersi con i testimoni sulle circostanze oggetto dei procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni compiacenti”(così CNF. sentenza 29 dicembre 2014, n. 214, e, nello stesso senso, la sentenza 6 ottobre 2014, n. 133).

In una propria sentenza, pronunciata a seguito del ricorso contro la decisione n. 133/2014 del CNF (e a conferma di questa), la Suprema Corte a sezioni Unite ha stabilito che “la norma di cui all’art. 52 c.d.f. (ora art. 55 c.d.f. – n.d.r.) abbraccia un perimetro più vasto di quello penale, in quanto il bene qui tutelato non è, o non è solo, l’amministrazione della giustizia, ma l’esercizio del diritto di difesa delle altre parti del processo (diritto che sarebbe reso vano dalla predeterminazione del contenuto della deposizione) e la stessa regola di lealtà (assunta correttamente a parametro nel capo di incolpazione) e correttezza imposta all’attività dell’avvocato.”(così Cass. SS.U.U., sentenza 12 giugno 2015, n. 12183).

In una sentenza meno recente, risalente al 2012 e avente a oggetto l’interpretazione e applicazione del precedente art. 52 del c.d.f., il CNF aveva fornito una direttiva più ampia in merito all’applicazione della norma sul divieto per l’avvocato di avere rapporti con i testimoni stabilendo che: “affinché la condotta sia deontologicamente rilevante ai sensi dell’art. 52 c.d.f., è necessaria la concorrenza di tre condizioni: che l’avvocato (i) si intrattenga con i testimoni, (ii) facendo uso di argomenti ontologicamente idonei a provocare forzature o suggestioni del teste ovvero a creare una situazione psicologica della persona tale da alterare una non spontanea e/o falsa rappresentazione della realtà, (iii) funzionale ad ottenere dal teste delle deposizioni a favore della parte” (CNF, 17 settembre 2012, n. 112). Nel caso di specie l’avvocato aveva impugnato la decisione con cui il COA locale lo aveva sanzionato per aver ricevuto la teste nel proprio studio. Il CNF, rilevato che l’avvocato non aveva in realtà forzato psicologicamente la teste per ottenerne una dichiarazione compiacente, in applicazione del principio di cui in massima, ha accolto il ricorso.

Come ha riconosciuto la dottrina che si occupa della materia deontologica, “in effetti, il principio dell’estraneità alla lite del patrono ha imposto per molto tempo una neutralità particolare difronte ai testimoni, impedendo agli avvocati di avere contati con i testi o di compiere indagini personali. Tuttavia il principio appare decisamente superato con il nuovo processo penale che impone proprio l’esigenza di realizzare contatti con fonti di prova, e quindi con i possibili testimoni”(2).

Attualmente pertanto l’interpretazione del principio deontologico stabilito dall’art. 55 c.d.f. (e, in precedenza, nell’art. 52) appare orientata nel senso di ammettere la possibilità di contatti fra l’avvocato e i testimoni (o futuri tali), purché il difensore si astenga dal porre in essere condotte che miranti a influenzare il contenuto della deposizione.

Depongono in questo senso anche alcuni orientamenti della giurisprudenza di merito diretti a consentire nel processo (civile) l’introduzione delle informazioni acquisite con l’attività investigativa mediante testimonianza del professionista assunto dal difensore della parte: “nel processo civile, non possono essere utilizzate le dichiarazioni testimoniali degli investigatori ma, semmai, i fatti precisi, circostanziati e chiari che il terzo (investigatore) abbia appreso con la sua percezione diretta: e ciò mediante la raccolta della prova orale nel processo” (così Trib. Milano, 8 aprile 2013).

Nel caso di specie, pertanto, stando all’interpretazione delle norme citate, non esiste in astratto alcun impedimento che possa ostacolare l’assunzione del mandato da parte dell’avvocato che svolga la propria attività in associazione con un possibile testimone del processo e che non intrattenga con questo rapporti diretti a suggestionare il testimone o influenzare in qualsiasi modo il contenuto della deposizione.

Né, in mancanza di qualunque richiamo normativo o precedente giurisprudenziale, si può ritenere che sia applicabile in via analogica al collega di studio del testimone il comma III dell’art. 51 c.d.f., che prevede che “qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o persona informata sui fatti non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo”.

5. Il caso concreto. L’esame della fattispecie concreta suggerisce tuttavia alcune cautele nella valutazione della possibile rilevanza deontologica delle condotte.

È infatti sostenibile che il testimone e l’avvocato difensore che svolge il proprio ministero in associazione professionale con il primo abbiano un interesse comune a far sì che la causa venga definita in senso favorevole alla parte assistita. Non può pertanto essere escluso a priori che, anche in buona fede, il contenuto della testimonianza possa in essere condizionato da questo obiettivo: è infatti molto alta la probabilità che il testimone e l’avvocato difensore, colleghi di studio, abbiano avuto fra loro scambi e confronti in merito al concreto svolgersi dei fatti su cui dovrà incentrarsi la testimonianza. Tale circostanza potrebbe essere utilizzata strumentalmente dal difensore avversario per cercare di screditare la testimonianza o sminuirne l’efficacia probatoria, danneggiando così la difesa della parte assistita.

Le circostanze descritte e il comune interesse del testimone e del difensore all’esito positivo del giudizio, sebbene non tali da integrare gli estremi dell’inammissibilità della testimonianza prevista dall’art. 246 c.p.c., potrebbero dunque essere tali da compromettere, agli occhi del giudice, la credibilità del testimone, con la conseguenza di vanificare l’efficacia di siffatta prova a favore della parte assistita compromettendo così il suo diritto alla miglior difesa possibile. Non si deve dimenticare infatti che: “la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità” (così Cass., 12 settembre 2019, n. 22796 e, analogamente, per tutte, anche Cass., 09 agosto 2019, n. 2123 e Cass., 15 ottobre 2018, n. 25700).

A parere di questo Consiglio sussiste pertanto il rischio che l’assunzione della difesa della parte a opera del collega di studio del testimone comprometta la credibilità del testimone e non garantisca adeguatamente il diritto di difesa del cliente.

Qualora la testimonianza non fosse ritenuta completamente attendibile dal magistrato, l’avvocato potrebbe essere chiamato a rispondere della violazione dei canoni deontologici che mirano a garantire l’integrità del diritto di difesa della parte assistita e il corretto adempimento dei dovere esplicitati nei canoni generali previsti dagli artt. 9, 10, 11 e 12.

4. Conclusioni. L’avvocato chiamato a rendere testimonianza su fatti ai quali ha assistito non nello svolgimento della sua attività professionale, ma in qualità di privato cittadino è obbligato a rendere la propria testimonianza.

Non esiste una norma deontologica che impedisca all’avvocato, collega di studio del testimone, di assumere la difesa della parte nel giudizio in cui è chiamato a deporre il testimone.

Occorre tuttavia considerare la possibilità che l’assunzione del mandato difensivo da parte del collega di studio del testimone possa in qualche modo compromettere la valutazione di attendibilità del testimone stesso, con il risultato di comprometterne la credibilità agli occhi del giudice. In tal modo l’efficacia probatoria della testimonianza verrebbe compromessa e con essa anche l’integrità del diritto di difesa.

Potrebbe pertanto essere chiamato a rispondere della violazione dei canoni deontologici generali previsti dagli artt. 9, 10, 11 e 12 l’avvocato che, nelle circostanze descritte nel quesito, consapevole del rischio di compromettere l’efficacia probatoria della testimonianza e, quindi, il diritto del cliente alla migliore difesa, assuma comunque il mandato difensivo.

Ciò detto circa il quesito, ci corre infine l’obbligo di precisare che:

– con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine;

– ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo;

– pertanto, è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.

NOTE: (1) Cfr. Cass., 05 gennaio 2018, n. 167 che ha stabilito: “l’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 c.p.c. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del processo – salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste – né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio”.

(2) Così R. DANOVI, Manuale breve. Ordinamento forense e deontologia, Milano, 2019, p. 150