E’ stato chiesto a questo Consiglio se violi l’art. 48 del codice deontologico l’avvocato che depositi in giudizio proposte transattive scambiate tra colleghi sul presupposto che il collega oltre che essere avvocato è anche parte in causa.
Nella richiesta di parere si precisa che tale deposito sarebbe “necessario per espletare esigenze riguardanti il diritto di difesa del cliente in quanto, nella risposta riguardante la proposta transattiva formulata, controparte ha preso posizione ben precisa in un fatto ritenuto essenziale per la causa”.
Si richiede infine “se il divieto di cui all’art. 48 del codice deontologico si applichi ai soli processi civili o venga esteso a tutti i processi in generale, ivi compreso quello penale”.
Occorre innanzitutto premettere che non rientra nelle prerogative e nei compiti del Consiglio effettuare indagini di fatto e di diritto in relazione a casi specifici e rilasciare pareri sulla compatibilità o meno di una singola fattispecie con la Legge Professionale ovvero con il Codice deontologico forense.
Il Consiglio può pertanto rilasciare pareri solo su questioni di carattere generale che attengono alle disposizioni della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense ovvero, come nel caso di specie, del Codice deontologico con l’ulteriore precisazione, quanto alle norme di natura deontologica, che (i) con la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense il “potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” (art. 50 L. 247/2012) e dunque esso non rientra più tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine; (ii) i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono, in conseguenza, rilasciati in termini generali e non assumono e non possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, funzione orientativa, né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina, né possono rilevare quale esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo; (iii) è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella propria autonoma valutazione dei comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio anche per quanto riguarda l’elemento soggettivo.
Da tali premesse discende che, nella fattispecie in esame, il Consiglio non si può esprimere sulla utilizzabilità o meno in giudizio di specifici documenti, ma si deve limitare ad esporre considerazioni di carattere generale in relazione all’art. 48 del Codice deontologico forense ed al suo ambito di applicazione.
L’art. 48 stabilisce, al comma 1, il divieto per l’avvocato di “produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte”.
Come è stato affermato dal CNF in numerose pronunce “l’art. 48 ncdf (già art. 28 codice previgente) vieta di produrre o riferire in giudizio la corrispondenza espressamente qualificata come riservata quale che ne sia il contenuto, nonché quella contenente proposte transattive scambiate con i colleghi a prescindere dalla suddetta clausola di riservatezza. Tale norma deontologica è dettata a salvaguardia del corretto svolgimento dell’attività professionale e, salve le eccezioni previste espressamente, prevale persino sul dovere di difesa” (sentenza CNF 21 novembre 2017 n. 181).
E ancora: “il divieto di produzione in giudizio della corrispondenza riguarda anche la corrispondenza propria, giacché l’art. 48 codice deontologico (già art. 28 codice previgente) non distingue tra mittente e destinatario e, inoltre, la ratio della norma (cioè assicurare la libertà di corrispondenza tra colleghi e lo scambio di scritti tra loro senza riserve mentali o timori che essi possano essere oggetto di produzione o divulgazione in giudizio) sarebbe radicalmente vanificata qualora il mittente della lettera “riservata” potesse fare cadere motu proprio e unilateralmente tale caratteristica e disporne a piacimento, anche producendola o riferendola in giudizio, costringendo il destinatario a temere che tale evento possa sempre verificarsi: il rischio che tale ipotesi si possa concretizzare, infatti, indurrebbe il destinatario ad introdurre riserve e cautele nella risposta (evitando sempre, ad esempio, ammissioni o consapevolezze di torti) così limitando comunque la sua sfera di libertà e snaturando, quindi, la finalità del divieto” (sentenza CNF 21 novembre 2017 n. 177).
L’art. 48 contiene, al comma 2, le eccezioni al suddetto divieto stabilendo che “l’avvocato può produrre la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando essa: a) costituisca perfezionamento e prova di un accordo; b) assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste”.
Per quanto riguarda la prima ipotesi si è ritenuto in dottrina che “la ragione dell’eccezione è evidente. Se la corrispondenza tende alla definizione della lite, la riservatezza non ha più ragione di porsi quando un accordo definitivo sia stato raggiunto; anzi, il perfezionamento dell’accordo deve essere documentabile, poiché esso rappresenta il superamento della lite e il nuovo assetto dei rapporti tra le parti, ed è compito proprio dell’avvocato dare esecuzione dello stesso” (R. Danovi “La riservatezza della corrispondenza: una proposta di modifica dell’art. 48 del Codice deontologico” in Corriere Giuridico 5/2016 pagg. 648 – 653). Per quanto riguarda la seconda ipotesi è stato ritenuto che “sia ugualmente producibile la corrispondenza dell’avvocato che assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste (eventualmente in un termine di dilazione concesso). Anche in questo caso il mantenimento della riservatezza sarebbe illogico, poiché espressione di un accordo diretto all’adempimento” (R. Danovi cit., pag. 651).
L’individuazione delle fattispecie che configurano le suddette eccezioni non è sempre agevole.
E’ stato, ad esempio, ritenuto che “nella sola ipotesi in cui la proposta transattiva, ancorché non sottoscritta dal cliente dell’avvocato che l’ha formulata, sia stata accettata dalla controparte, la stessa ben potrà essere prodotta in giudizio al fine di provare l’intervenuto accordo.
In tutti gli altri casi è fatto divieto di produzione, ostandovi il disposto dell’art. 48 del codice; e ciò anche nell’ipotesi di subentro di altro difensore, dal momento che la ratio dell’articolo in esame è quella evitare che la parte rappresentata possa subire un danno, assicurando nel contempo all’avvocato la libertà di interagire (nel preminente interesse del cliente) anche per iscritto con il collega di controparte senza il timore che la corrispondenza scambiata possa essere utilizzata in giudizio, mediante sua produzione o divulgazione” (sentenza CNF 26 aprile 2017 n. 26).
Le ipotesi contemplate al comma 2 dell’art. 48 del Codice deontologico sono le uniche eccezioni che consentono di superare la regola del divieto di produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa tra colleghi “contenente proposte transattive e relative risposte” indipendentemente dal fatto che tale corrispondenza sia o meno qualificata come riservata.
La suddetta corrispondenza viene qualificata come riservata “d’ufficio”.
Si ritiene poi che non rilevi la circostanza che uno dei colleghi con i quali è intervenuta la corrispondenza contenente la proposta transattiva sia “anche parte in causa”.
Al riguardo è stato ritenuto, seppur con riferimento all’ipotesi di corrispondenza tra colleghi contenente la clausola di riservatezza espressa, che il divieto sussiste “anche nel caso in cui uno degli avvocati sia parte sostanziale nel giudizio, come avviene molto spesso nei rapporti familiari. In tale caso, infatti, non è possibile scindere l’immedesimazione soggettivamente esistente in chi è parte processuale e al contempo si difende in proprio: e ciò, tanto nell’ipotesi in cui l’avvocato/parte sia mittente delle lettere, quanto nell’ipotesi in cui sia destinatario delle stesse. Né il fatto che uno degli effetti sia di per sé escluso (la consegna, coincidendo l’avvocato con il cliente di se stesso) può essere invocato per giustificare e autorizzare la violazione dell’altro divieto di produzione in giudizio (ove la corrispondenza sia dichiarata riservata), perché permane pur sempre la qualità soggettiva delle parti e la volontà espressa” (R. Danovi, cit, pag. 650).
Si osserva, infine, che l’art 48 si riferisce testualmente al divieto per l’avvocato di “produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio….” ed è contenuto nel Titolo IV relativo ai “doveri dell’avvocato nel processo” senza operare alcuna distinzione relativa alla natura del giudizio o del processo.
Si ritiene pertanto che il divieto trovi applicazione sia nei giudizi civili , sia in quelli penali.
parere