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giurisprudenza

È illecito disciplinare difendere uno dei coniugi nel divorzio contenzioso, se si apparteneva allo studio incaricato da entrambi per la separazione consensuale (C.N.F., Sent., 22 novembre 2018, n. 141)

La vicenda in questione trae origine dall’esposto che un’avvocatessa riceve nel 2013 da un suo ex cliente, per avere assunto la difesa della moglie nel proprio giudizio di divorzio contenzioso, nonostante l’attività di assistenza dalla medesima avvocatessa resa nel 2006 a favore di entrambi i coniugi nel giudizio di separazione consensuale.

Il COA di M. escludeva la violazione delle norme del codice deontologico dettate in tema di conflitto di interessi (art. 24 c.d.f. vigente) e assunzione di incarichi contro ex clienti (art. 68 c.d.f. vigente), ravvisando però la violazione dei doveri di lealtà e correttezza (art. 9 c.d.f. vigente), e quindi infliggendo la sanzione dell’avvertimento.

Nel corso del procedimento disciplinare, infatti, era emerso che l’avvocatessa, pur non essendo stata nominata difensore dei coniugi nella separazione, già all’epoca apparteneva allo studio dell’avvocato da essi designato in quel giudizio, con il quale -inoltre- aveva successivamente instaurato anche un rapporto di convivenza more uxorio.

Avverso la suddetta decisione l’incolpata proponeva ricorso al CNF, contestando che vi fosse stata violazione dei canoni di lealtà e correttezza, non essendo stata fornita prova di attività da lei svolta nella separazione, e che la condotta fosse punibile, per essere l’illecito atipico; e comunque chiedendo l’irrogazione della più mite sanzione del richiamo verbale.

Il ricorso viene rigettato dal CNF, secondo cui, dall’appartenenza dell’avvocatessa allo studio legale incaricato della separazione consensuale dei due coniugi -già all’epoca di tale incarico e ininterrottamente dalla pratica forense in poi-, si può agevolmente presumere che la medesima abbia collaborato con quello studio anche alla cura di quella pratica.

Il che avrebbe dovuto indurla a non assumere la difesa della moglie nel divorzio, determinando ciò una situazione non chiara, suscettibile di apparire quasi come un espediente, e confliggente con i doveri di cui all’art. 9.

Quanto all’atipicità dell’illecito, in realtà -afferma il CNF richiamando sul punto il proprio orientamento (da ultimo C.N.F. 25.10.2018 n. 132, in questa rivista)- l’art. 3 della legge professionale prevede che le norme del codice deontologico aventi rilevanza disciplinare solo “per quanto possibile” devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile; cosicché la mancata descrizione di uno o più condotte e della relativa sanzione non genera l’immunità, ma in caso di violazione dei principi generali di cui all’art. 9 c.d.f. (sanciti anche dall’art. 3 l.p.) impone l’applicazione dei criteri di determinazione della sanzione di cui all’art. 21 del codice deontologico.

In base a detti criteri, ritiene il Collegio che nel caso di specie sia congrua la sanzione dell’avvertimento (che peraltro è già la più lieve sanzione disciplinare), anziché quella del richiamo verbale, che non ha natura disciplinare ma è prevista dall’art. 22 solo per le infrazioni lievi e scusabili, quale non può essere considerata quella in questione.

A cura di Stefano Valerio Miranda