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giurisprudenza

Il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi dei parametri forensi (Cass., Sez. II, 21 agosto 2023, n. 24882)

La sentenza in commento si pronuncia sulla possibilità per il giudice, nel caso di assenza di accordo tra le parti circa la determinazione del compenso, ovvero in caso di liquidazione delle spese di lite a carico del soccombente, ovvero in caso di liquidazione del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, di poter derogare, sia pure in maniera motivata, ai minimi dettati dai parametri forensi di cui al D.M. n. 55/2014.

La questione si pone a seguito del ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza del Tribunale di Roma che, quale giudice di appello, aveva liquidato le spese di lite a favore della parte vittoriosa in misura inferiore a detti minimi, motivando che il giudizio era stato celebrato in un’unica udienza e che aveva avuto un contenuto estremamente semplice.

Al riguardo, la Corte rileva in primo luogo che, per effetto della modifica apportata al D.M. n. 55/2014 dal D.M. n. 37/2018, entrata in vigore il 27 aprile 2018, in relazione al potere del giudice di ridurre il compenso rispetto al valore medio in misura non superiore al 50%, è stata eliminata l’espressione “di regola”, che invece aveva in precedenza giustificato l’interpretazione volta a consentire, sia pure con motivazione, la liquidazione anche al di sotto dei minimi.

Non solo, ma ritiene la Corte che la necessità di interpretare la summenzionata novella nel senso dell’inderogabilità dei minimi rinviene poi un argomento di carattere sistematico nella pressoché coeva introduzione della disciplina in tema di equo compenso per le attività professionali svolte in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, che assimila i parametri minimi alla misura dell’equo compenso al fine di impedire la conclusione di accordi volti a mortificare la professionalità dell’esercente la professione forense, con la fissazione di compensi meramente simbolici e non consoni al decoro della professione.

Infine, rileva la Corte come, per tre ordini di ragione, alcun dubbio possa esserci riguardo alla compatibilità dell’inderogabilità dei parametri minimi con la normativa comunitaria: (i) in quanto la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE esclude la ricorrenza di intese restrittive della libertà di concorrenza allorché, in base alla normativa statale, un ordine professionale si limiti a predisporre un progetto di tariffa rispetto al quale lo Stato non rinunci ad esercitare un controllo decisionale sull’approvazione ed applicazione della tariffa (come appunto nel caso della normativa italiana, che prevede che i parametri, seppure approntati da parte del CNF, sono poi sottoposti al vaglio e al controllo dell’autorità statale mediante Decreto ministeriale, adottato previo parere del Consiglio di Stato); (ii) poiché resta impregiudicata la possibilità per le parti di poter porre in essere degli accordi anche in deroga alle previsioni dei parametri, essendo l’inderogabilità dettata per il caso di assenza di pattuizioni ovvero di liquidazione giudiziale in danno della parte soccombente; (iii) e infine perché la previsione in punto di inderogabilità dei minimi trascende il mero interesse privato della categoria professionale e assolve alla tutela di un interesse di carattere pubblico, rappresentato dall’esigenza di salvaguardare l’indipendenza e l’autonomia dell’avvocato ed assicurare la qualità ed il livello della sua prestazione professionale, e quindi in definitiva l’esercizio stesso del diritto di difesa.

Pertanto, in continuità con quanto di recente affermato dalla Suprema Corte (cfr. ex multis Cass. n. 10438/2023), viene affermato il seguente principio di diritto: ai fini della liquidazione in sede giudiziale del compenso spettante all’avvocato nel rapporto col proprio cliente, in caso di mancata determinazione consensuale, come ai fini della liquidazione delle spese processuali a carico della parte soccombente, ovvero in caso di liquidazione del compenso del difensore della parte ammessa al beneficio patrocinio a spese dello Stato nella vigenza dell’art. 4, comma 1, e 12, comma 1, del D.M. n. 55 del 2014, come modificati dal D.M. n. 37 del 2018, il giudice non può in nessun caso diminuire oltre il 50 per cento i valori medi di cui alle tabelle allegate.

Il provvedimento impugnato viene quindi cassato, con rinvio al Tribunale di Roma in persona di diverso magistrato.

Degno di nota, a pere di chi scrive, è il fatto che la sentenza in commento abbia in sostanza affermato che, in base alla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, anche un eventuale divieto normativo di pattuizione del compenso in misura inferiore ai parametri minimi non determinerebbe necessariamente un’illecita restrizione della concorrenza, potendo esso rispondere effettivamente ad obiettivi legittimi (quali appunti quello sopra enunciati); e che dunque l’abrogazione dei minimi tariffari operata dalla nota riforma Bersani del 2006, contrariamente a quanto dichiarato, non era in realtà imposta da alcuna normativa di rango comunitario.

A cura di Stefano Valerio Miranda

 

 

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Allegato:
24882-2023