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giurisprudenza

La prestazione d’opera intellettuale tra avvocati si presume onerosa (Cass., Sez. II, Ord., 18 novembre 2024, n. 29617)

Con la sentenza n. 29617 del 18 novembre 2024 la seconda sezione della Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato principio che ogni prestazione professionale resa da un avvocato si presume onerosa, salvo prova contraria.

La fattispecie in sintesi: il ricorrente avvocato evocava in giudizio avanti il Tribunale di prime cure un collega chiedendo l’accertamento che nulla fosse dovuto dal ricorrente al resistente a titolo di compensi professionali, come richiesti dal resistente con due note pro forma, per l’attività svolta nel corso di 35 anni.

Il ricorrente sosteneva che il complessivo delle prestazioni per cui veniva chiesto il pagamento rientrava nell’ambito di accordi e favori reciproci, fondati su rapporto di amicizia e sostegno professionali

Il resistente, dal canto suo, si costituiva chiedendo in via riconvenzionale la condanna la pagamento dei compensi per le due note proforma, opponendo che gli accordi e favori reciproci concernevano esclusivamente le prestazioni rese in alcuni giudizi penali ma non le diverse prestazioni di cui alle note pro forma.

Il Tribunale di prime cure accoglieva la domanda riconvenzionale e condannava il ricorrente a pagare il quantum indicato nelle pro forma.

L’appello successivamente interposto dal ricorrente veniva, inoltre, rigettato sul rilievo che i) a fronte della presunzione di onerosità della prestazione professionale non risultava prova di alcuna consuetudine di gratuità; ii) il ricorrente non aveva contestato l’an della parcella ma soltanto il quantum; iii)  nei procedimenti penali i compensi erano stati retribuiti da terzi e che nella controversia avanti il Tribunale di Ancona, alla revoca del mandato difensivo al resistente, quest’ultimo aveva riservato impregiudicato il diritto agli onorari per l’attività prestata.

Avverso la sentenza resa in secondo grado, il ricorrente proponeva ricorso per cassazione con cinque motivi.

In particolare, con il secondo ed il terzo motivo il ricorrente lamentava che la Corte d’Appello i) pur avendo dato atto che non vi era alcun contratto sul compenso spettante per l’attività prestata, non avrebbe verificato se il medesimo potesse integrarsi con quanto praticato in passato fra i due (ricorrente / resistente), violando quindi i criteri sull’interpretazione dei contratti; ii) avrebbe escluso la sussistenza della prova di gratuità valutando solo in parte la corrispondenza fra i due, violando l’art. 115/116 c.p.c.

La Corte ha dichiarato inammissibili i suddetti motivi per le seguenti ragioni.

In primo luogo, ha ribadito che la prestazione d’opera intellettuale, in quanto species dei rapporti di lavoro autonomo, è oggetto di un contratto avente normalmente natura onerosa in conseguenza della sua causa di scambio.

In secondo luogo, ha precisato che la prestazione d’opera può essere gratuita, senza però che tale declinazione di gratuità debba imporre al professionista alcun ulteriore onere probatorio: in altre parole, per esigere il pagamento il professionista deve provare incarico ed adempimento dell’obbligazione assunta ma non la pattuizione di un corrispettivo mentre il committente deve provare l’accordo sulla gratuità della prestazione.

Nel caso di specie, a seguito dell’accertamento dello svolgimento dell’attività professionale pur senza alcun contratto, il ricorrente non aveva provato la gratuità dell’incarico: per cui, dalla Corte d’Appello non vi era stata alcuna omissione in ordine ai profili integrativi del contratto in quanto quest’ultimo non era mai stato sottoscritto e pertanto non v’era alcuna necessità di integrarlo.

Nondimeno, neanche la censura degli artt. 115/116 c.p.c. è stata ritenuta ammissibile dal Supremo Collegio sulla scorta del fatto che il giudice può porre a fondamento della propria decisione le prove introdotte dalle parti valutando quale tra le prove prodotte sia quella maggiormente di valore: ed il giudice di prime cure, avendo valutato la parte ritenuta utile alla decisione scartando la corrispondenza non utile, ha fatto corretta applicazione delle suddette norme.

Infine, con il quinto motivo il ricorrente lamentava l’errore di mancata valutazione di rilevanti elementi indiziari sulla domanda subordinata di annullamento contratti di prestazioni per dolo omissivo.

La Corte ha ritenuto inammissibile anche questo motivo sul rilievo che dalle prove raccolte ci potesse essere un accordo di gratuità e/o comportamento dolosamente inerte che avesse indotto il ricorrente in erre sul punto (dalle prove offerte, infatti, era emerso che a seguito dell’invio delle parcelle del resistente, il ricorrente era stato inerte senza nulla opporre).

La Corte, quindi, all’esito della motivazione rigetta il ricorso, condannando altresì il ricorrente ex art. 96, comma 3 c.p.c. a pagare 2.000,00 euro attesta la palese inammissibilità dei motivi di ricorso nonché a pagare il doppio del contributo unificato.

A cura di Andrea Goretti