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giurisprudenza

L’autorevolezza di un avvocato, consapevole del suo ruolo, risiede non solo e non tanto nella sua preparazione, nel suo personale talento, ma nell’onestà e correttezza del suo comportamento. La corrispondenza di quest’ultimo ai canoni deontologicamente stabiliti è a tutela non del singolo avvocato, ma dell’intera avvocatura (C.N.F., Sent., 28 aprile 2021, n. 84)

Il procedimento disciplinare in commento è nato dalla seguente condotta:

un Avvocato, nel difendere un proprio assistito quale querelante nel reato di diffamazione a mezzo face book, proponeva opposizione alla richiesta di archiviazione fatta dal P.M. procedente. Nel far ciò, tuttavia, il difensore attribuiva al P.M. le medesime frasi adoperate dal querelato nei confronti del querelante sulla piattaforma social. Il G.I.P., pur accogliendo l’opposizione alla richiesta di archiviazione, segnalava al C.O.A. competente le espressioni dell’Avvocato.

Di talchè veniva aperto un procedimento disciplinare nei confronti dell’Avvocato, sui seguenti capi di imputazione:

1)   l’aver tenuto nello svolgimento dell’attività professionale, comportamenti compromettenti l’immagine della professione forense, per aver utilizzato espressioni gravemente sconvenienti ed offensive nei confronti di un Pubblico Ministero;

2)   il non avere osservato, pur essendone tenuto, nell’esercizio dell’attività professionale, i doveri di lealtà, correttezza, probità, decoro, dignità, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense, a causa del suddetto e già descritto comportamento;

3)   l’uso di un comportamento non improntato a dignità e rispetto nei reciproci rapporti con i Magistrati.

Il competente Consiglio Distrettuale di Disciplina, considerato il comportamento di rammarico assunto dall’incolpato in occasione del giudizio disciplinare, e ritenute le espressioni usate dallo stesso sconvenienti ma prive di alcun intento lesivo dell’onore altrui, irrogava nei confronti del medesimo la sanzione disciplinare dell’avvertimento.

L’Avvocato nondimeno impugnava la decisione sostenendo che le espressioni utilizzate dovevano essere inquadrate all’interno di un legittimo esercizio del diritto di difesa e che le parafrasi impiegate sarebbero state presentate al fine di concretare il ricorso ad una intuitiva argomentazione, quale: “e se avessero fatto a te quello che hanno fatto a me?”: in altre parole sarebbe stato più evidente il riferimento delle espressioni ritenute offensive evidenziate in querela e, dunque, l’accoglibilità dell’opposizione all’archiviazione; a fronte di tale circostanza non sarebbe, quindi, ravvisabile alcun intento offensivo nei confronti del P.M.

A parere del C.N.F., tuttavia, la tesi difensiva dell’incolpato non è condivisibile e non merita accoglimento.

Il C.N.F. infatti ricorda anzitutto che, per giurisprudenza consolidata dello stesso Consiglio, non soltanto le espressioni offensive ledano la dignità ed il decoro professionale, ma altresì quelle meramente sconvenienti. Nell’ambito della propria attività difensiva, l’Avvocato deve e può esporre le ragioni del proprio assistito con rigore, utilizzando tutti gli strumenti processuali di cui dispone, ma il diritto della difesa incontra un limite insuperabile nella civile convivenza, nel diritto della controparte o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato.

Il Collegio poi conclude con un monito che, ad avviso di chi scrive, dovrebbe costituire la stella polare dell’attività dell’Avvocato: l’autorevolezza di un avvocato, consapevole del suo ruolo, risiede non solo e non tanto nella sua preparazione, nel suo personale talento, ma nell’onestà e correttezza del suo comportamento. La corrispondenza di quest’ultimo ai canoni deontologicamente stabiliti è a tutela non del singolo avvocato, ma dell’intera avvocatura.

A cura di Devis Baldi