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giurisprudenza

Se il praticante abusa del titolo di avvocato il compenso è dovuto? (Cass. Sez. II, Ord., 22 giugno 2022, n. 20108)

La II Sezione della Suprema Corte con ordinanza n. 20108/2022 ha chiarito quali sono le conseguenze cui va incontro il contratto stipulato fra cliente ed avvocato che al momento della difesa in giudizio era ancora praticante, precisando anche le basi su cui quantificare e liquidare il compenso.

La fattispecie trattata può così sintetizzarsi: un avvocato otteneva un decreto ingiuntivo da parte del G.D.P. nei confronti di un vecchio cliente per compensi maturati a seguito dello svolgimento di attività giudiziale (nella specie, procedimento penale avanti Tribunale monocratico e poi collegiale).

L’ex cliente proponeva opposizione al D.I., parzialmente accolta, cui faceva seguito l’impugnazione al Tribunale finalizzata alla revoca del D.I.: il cliente affermava che al tempo in cui la professionista aveva svolto la propria attività non era avvocato bensì solo praticante abilitato, per cui non avrebbe potuto difenderlo avanti gli organi giurisdizionali collegiali.
Ne derivava, secondo il cliente, la nullità del contratto stipulato con conseguente non debenza del compenso.

Il Tribunale accoglieva parzialmente l’impugnazione e condannava l’appellante a versare alla professionista una somma ridotta rispetto a quanto originariamente richiesto: in parte motiva, difatti, evidenziava che la professionista era effettivamente iscritta all’albo dei praticanti abilitati, ma, anche se non autorizzata a patrocinare dinanzi al Tribunale del riesame (quale organo giurisdizionale collegiale), lo era rispetto alla fase precedente.

Per tali motivi, veniva riconosciuto alla professionista un compenso quantificato in base ai valori medi delle tariffe “ratione temporis”.
L’ex cliente proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza del Tribunale, invocando la nullità del contratto in quanto all’epoca dei fatti la professionista era un mero praticante avvocato abilitato e si era qualificata con il medesimo quale avvocato iscritto all’albo.

La Suprema Corte, in punto di diritto, ha affermato che il contratto non può considerarsi nullo atteso che seppur stipulato con un praticante avvocato abilitato, lo stesso aveva ricevuto incarico a mezzo procura speciale per un reato (sostituzione di persona) con pena ricompresa nei limiti di cui all’art. 550 c.p.p., perfettamente compatibile per la fase dinanzi al Tribunale monocratico, con i limiti di patrocinio del praticante abilitato indicati all’art. 7 della L. n. 479/1999.

Ne deriva, pertanto, che il contratto è parzialmente nullo, in relazione alla sola attività svolta avanti il Tribunale Collegiale.

Il ricorrente, poi, lamentava che il compenso liquidato dal Tribunale non teneva di conto il fatto che l’onorario per i praticanti avvocati abilitati è dimezzato rispetto a quello degli avvocati: sul punto, la Suprema Corte ha accolto la tesi del ricorrente censurando quindi la liquidazione del Tribunale avvenuta in base ai valori medi delle tariffe di cui al D.M. 127/2004.

In conclusione, dunque, la Corte ha cassato la sentenza impugnata per i motivi di cui sopra e, decidendo nel merito, ha quindi diminuito il compenso spettante alla professionista, condannandola a restituire all’ex cliente la differenza fra quanto dallo stesso versato in esecuzione della sentenza ed il compenso definitivo.

A cura di Andrea Goretti