Direttore Responsabile:

Susanna Della Felice

Coordinatore di Redazione:

Lapo Mariani

giurisprudenza

Sul dovere di probità e correttezza negli scritti difensivi (Cass., Sez. Un., 4 maggio 2010, n. 10691)

L’avvocato non ha “licenza di offendere”: è questo, in breve, l’interessante precetto che si ricava dalla vicenda definita con la sentenza in commento.
L’incolpato, nella fattispecie, aveva, in un proprio atto difensivo, definito come “fedifrago” un soggetto, del tutto estraneo alla causa, al fine di rappresentare l’infelice esperienza coniugale di una delle controparti.
La sanzione dapprima comminata all’avvocato dall’ordine territoriale (censura) è stata ridotta dal Consiglio Nazionale Forense all’avvertimento.
Nonostante ciò, tuttavia, il CNF ha ritenuto che “la parola fedifrago ha un’indubbia potenzialità offensiva, perché equivale a qualificare il soggetto come ‘infedele, sleale e traditore’”. Inoltre, la condotta offensiva è stata altresì ritenuta del tutto avulsa dall’oggetto del giudizio.
Impugnata la pronuncia dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, quest’ultima ha respinto il gravame, confermando l’offensività dell’appellativo utilizzato, nonché la sua totale estraneità all’oggetto della causa, in quanto rivolto a soggetto che non era parte nella controversia al solo fine di fornire un’immagine negativa di controparte; obiettivo, quest’ultimo, che avrebbe potuto essere raggiunto con modalità più continenti, senza ricorrere ai riferimenti e agli appellativi poi in concreto utilizzati.
La Suprema Corte ha altresì sottolineato che è priva di pregio la tesi a mente della quale solo il difensore potrebbe valutare l’inerenza o meno al giudizio delle frasi e dei giudizi dallo stesso utilizzati; ciò, infatti, causerebbe il sostanziale svuotamento dei precetti di deontologia forense, lasciando al medesimo destinatario degli stessi un’amplissima discrezionalità in ordine alla loro concreta applicazione.

A cura di Mauro Mammana