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giurisprudenza

La legge professionale ed il codice deontologico non pongono il principio di stretta tipicità dell’illecito deontologico e consentono l’attribuzione di rilevanza disciplinare a comportamenti che, ancorché non tipizzati, siano comunque lesivi dei doveri fondamentali individuati (Cass., Sez. Un.,4 novembre 2021, n. 31572)

La L. n. 247 del 2012 ed il successivo codice deontologico, laddove affermano che “per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio di tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile”, esprimono una linea di tendenza che non esclude il ricorso, in via residuale, all’attribuzione di rilevanza disciplinare a una serie di comportamenti, ancorché non specificamente tipizzati, comunque lesivi dei doveri fondamentali. Ne consegue che, in materia di violazioni di obblighi disciplinari il principio di stretta tipicità dell’illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione nella materia disciplinare forense, nell’ambito della quale non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti vietati, ma solo l’enunciazione dei doveri fondamentali, tra cui segnatamente quelli di probità, dignità, decoro, lealtà e correttezza, ai quali l’avvocato deve in via generale improntare la propria attività. Da ciò consegue ulteriormente che, in tema di procedimento disciplinare a carico degli esercenti le professioni forensi, per aversi mutamento del fatto con riferimento al principio di correlazione tra addebito contestato e sentenza, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali del fatto concreto, in modo da determinare una tale incertezza sull’oggetto dell’addebito da far scaturire una reale violazione del contraddittorio e dei diritti della difesa. Ciò non accade quando l’incolpato, attraverso l’iter del processo, abbia avuto conoscenza dell’accusa e sia stato messo in condizione di difendersi e discolparsi.

A cura di Raffaella Bianconi