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giurisprudenza

L’accordo tra avvocato e cliente deve rispettare il requisito della forma scritta a pena di nullità (Cass., Sez. II, Ord. 24 ottobre 2023, n. 29432)

La vicenda nasce da una pronuncia resa in primo grado in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo promosso da una cliente contro la richiesta di pagamento avanzata dal proprio legale. In particolare, l’opponente rilevava l’assenza di un accordo scritto che legittimasse la richiesta di pagamento formulata dalla professionista.

Il Tribunale accoglieva l’opposizione rilevando che era pacifico il fatto che la cliente avesse corrisposto al proprio avvocato già le somme pattuite a titolo di compenso professionale, posto che il legale aveva emesso fattura con causale “compenso totale”, senza che la stessa professionista fosse riuscita a fornire prova contraria circa l’imputabilità della corresponsione di tale importo solo ad un acconto.

Avverso la suddetta decisione, l’avvocato proponeva ricorso in Cassazione contestando, per quanto qui interessa, l’asserita inesistenza dell’accordo intercorso con la cliente in merito al compenso professionale alla stessa spettante.

Rilevava la professionista che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto implicitamente sussistente un diverso (verbale) accordo per il pagamento del compenso nella misura di soli Euro 600,00 (oltre iva e cpa), per il semplice fatto che la professionista non aveva fornito prova alcuna che detto pagamento dovesse essere qualificato come acconto e non come saldo del dovuto.

La professionista lamentava che così facendo il Tribunale aveva fondato la sua decisione su presunzioni inammissibili, perchè applicate in violazione dell’art. 2729 c.c., comma 2, oltre ad omettere ogni valutazione circa l’assenza della forma scritta del contratto in violazione dell’art. 2223 c.c., comma 3 secondo cui “sono nulli se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscano i compensi professionali”.

La Corte ha ritenuto detti motivi fondati.

In particolare, la Corte ha rilevato come fosse pacifico il fatto che “tra la professionista e la sua cliente (…) non fosse stato concluso alcun contratto in forma scritta per la determinazione del compenso professionale” e che ciò nonostante, il Tribunale aveva ritenuto che il mero rilascio di fattura da parte dell’avvocato costituisse idonea prova dell’integrale soddisfacimento della pretesa della professionista, così prescindendo dall’indispensabilità della produzione di apposito contratto stipulato nella forma scritta comprovante la conclusione di un accordo tra le parti sulla quantificazione totale del compenso spettante alla professionista.

La Suprema Corte ha quindi sancito il principio per cui l’accordo di determinazione del compenso professionale tra avvocato e cliente deve rivestire la forma scritta a pena di nullità, senza che rilevi la disciplina introdotta dall’art. 13, comma 2, della legge n. 247 del 2012 che ha lasciato invariata (con la previsione di cui al successivo comma 6 dello stesso articolo 13) la previsione del requisito di forma, con la conseguenza che, da un lato, l’accordo, quando non trasfuso in un unico documento sottoscritto da entrambe le parti, si intende formato quando la proposta, redatta in forma solenne, sia seguita dall’accettazione nella medesima forma e, dall’altro, che la scrittura non può essere sostituita con mezzi probatori diversi e la prova per presunzioni semplici, al pari della testimonianza, sono ammissibili nei soli casi di perdita incolpevole del documento ex artt. 2724 e 2725 c.c.

La Corte pertanto cassa con rinvio al Tribunale affinchè si conformi all’enunciato principio di diritto, determinando quindi il compenso spettante alla professionista per la specifica attività professionale svolta in favore della cliente sulla base delle tariffe “ratione temporis” applicabili ed avuto riguardo all’importanza dell’affare e al decoro professionale.

A cura di Corinna Cappelli