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giurisprudenza

L’entità della sanzione disciplinare a carico di un Avvocato può essere aumentata “nei casi più gravi” (Cass., Sez. Un., 7 maggio 2019, n. 11933)

Nel caso in esame il Consiglio Distrettuale di Disciplina competente aveva sospeso un Avvocato per due mesi dall’esercizio dell’attività professionale perchè, in violazione dell’art. 46 del codice deontologico forense ratione temporis vigente (oggi art. 34 del nuovo c.d.f.), aveva agito giudizialmente nei confronti del proprio cliente per il recupero dei compensi professionali, senza tuttavia aver previamente rinunciato all’incarico che, infatti, continuava in grado di appello in una causa ancora pendente.

Il Consiglio Nazionale Forense condivideva la sanzione inflitta dal C.D.D. anche in virtù della carica rivestita dall’incolpato, componente di un COA territoriale, che richiedeva il massimo rigore nel rispetto delle regole deontologiche.

Ad avviso delle Sezioni Unite, sebbene il nuovo articolo 34 del c.d.f. preveda la più lieve sanzione della censura per la condotta in contestazione, si deve comunque tener presente che l’articolo 22 capoverso c.d.f. stabilisce che “nei casi più gravi” la sanzione possa essere aumentata nel suo massimo.

Di talchè, proseguono i giudici delle Sezioni Unite, deve ritenersi condivisibile la valutazione effettuata in sede disciplinare di merito, in quanto ha tenuto conto della gravità della condotta, anche in considerazione della carica rivestita dall’incolpato, ed ha fatto corretta applicazione dei canoni ermeneutici di cui all’art. 22 cpv anzidetto.

Per vero, il professionista incolpato si era difeso sostenendo anche che la qualifica rivestita all’interno del COA, come aggravante della condotta, non gli era stata contestata nel giudizio disciplinare ma era tuttavia stata valutata come parametro di determinazione della sanzione: al riguardo però le S.U. chiariscono che tale qualifica non attiene né all’an né al quomodo della condotta, rappresentando bensì soltanto un elemento di valutazione della gravità della condotta, similmente agli indici desumibili dagli artt. 133 e 133 bis c.p.; non costituisce, pertanto, circostanza aggravante in senso tecnico dell’illecito contestato.

Infine, le S.U. concludono con un passaggio motivazionale che lo scrivente ritiene meno persuasivo alla luce dei principi processual-penalistici, applicabili al giudizio disciplinare, in tema di imputazione (v. artt. 417, 429 e 552 c.p.p.): si afferma, cioè, che nel procedimento disciplinare non si ha diritto ad una contestazione articolata, ossia ad una minuta, completa e particolareggiata esposizione delle modalità dei fatti che integrano l’illecito, essendo sufficiente che la decisione dia rilievo all’iter del procedimento ed alla possibilità per l’incolpato di aver conosciuto l’addebito per discolparsi.

A cura di Devis Baldi