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giurisprudenza

L’irritualità della notifica non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha consentito la conoscenza dell’atto con il raggiungimento dello scopo (Cass., Sez. III, Ord. 12 maggio 2020, n. 8815)

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte fornisce alcuni interessanti chiarimenti in materia di PEC e di rilevanza del documento informatico specialmente con riferimento all’efficacia probatoria in ambito processuale.

Tizia conveniva in giudizio la proprietaria dell’appartamento sovrastante il suo sostenendo che da questo provenissero delle infiltrazioni di umidità.

Il Giudice di pace accoglieva la domanda e la convenuta proponeva appello.

L’appellata, tra le altre cose, eccepiva l’inesistenza dell’atto di appello, in quanto la copia notificata non risultava firmata digitalmente; lamentava, inoltre, la mancanza della firma digitale anche nella procura alle liti e l’inesistenza della notificazione dell’atto di appello, mancando la relativa relata.

Il giudice d’appello, accoglieva l’impugnazione, rigettava le domande proposte in primo grado e compensava integralmente tra le parti le spese di lite.

La soccombente ricorreva in Cassazione sostenendo che controparte era decaduta dal termine per proporre l’appello in quanto l’atto di impugnazione, la relativa procura alle liti e la sua notificazione erano afflitti da vizi tali da determinarne l’inesistenza.

In particolare, la ricorrente sosteneva che l’atto di citazione in appello le era stato notificato tramite una PEC contenente tre files non firmati digitalmente, riportanti l’estensione “.pdf”, anzichè “.p7m”.

La Corte, nel rigettare il ricorso, ribadisce un proprio consolidato orientamento secondo cui le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, sono entrambe ammesse ed equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “.p7m” e “.pdf”, e devono, quindi, essere riconosciute valide ed efficaci, anche nel processo civile di cassazione.

La busta CAdES è un file con estensione .p7m, il cui contenuto è visualizzabile solo attraverso idonei software in grado di “sbustare” il documento sottoscritto. Tale formato permette di firmare qualsiasi tipo di file, ma presenta lo svantaggio di non consentire di visualizzare il documento oggetto della sottoscrizione in modo agevole essendo necessario utilizzare un’applicazione specifica.

La firma digitale in formato PAdES, invece, è un file con estensione .pdf, leggibile con i comuni reader disponibili. Questa tipologia di firma, nota come “firma PDF”, rende il documento più facilmente accessibile, ma consente di firmare solo documenti di tipo PDF.

Inoltre, la Suprema Corte ha confermato l’argomentazione del Giudice di appello per cui ogni eventuale nullità era stata sanata dal raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. essendosi l’appellata costituita regolarmente in giudizio.

Infatti, per giurisprudenza costante, l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

Peraltro, con specifico riferimento alla copia notificata al convenuto, viene precisato che la mancanza della sottoscrizione del difensore non ne comporta la nullità se dalla copia stessa sia possibile desumere, sulla scorta degli elementi in essa contenuti, la provenienza dal procuratore abilitato munito di mandato.

La ricorrente, poi, si duole della mancanza dell’attestazione di conformità e della sottoscrizione digitale della procura alle liti allegata all’atto di citazione in appello.

Anche in questo caso la Suprema Corte non accoglie le lamentele della ricorrente, rilevando che con riferimento al formato “.pdf”, anziché “.p7m” della procura valgono le stesse considerazioni svolte in precedenza.

Inoltre la Corte afferma che l’attestazione di conformità è stata prodotta in occasione dell’iscrizione a ruolo e del deposito del fascicolo telematico, momento in cui era ancora possibile il rilascio ex novo della procura ai sensi dell’art. 125 c.p.c., comma 2.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

 

A cura di Corinna Cappelli