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giurisprudenza

Sull’istanza di cancellazione di frasi offensive e denigratorie contenute in un atto difensivo del giudizio ed altri principi (Cass., Sez. II., Ord., 14 dicembre 2017, n. 30057)

Con la pronuncia in esame gli Ermellini ricordano tre importanti orientamenti del Supremo Collegio.

Anzitutto, la decisione cita il consolidato indirizzo a mente del quale, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata. La configurazione formale della rubrica del motivo, infatti, non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura.

In secondo luogo, in materia di patrocinio svolto dai praticanti avvocati, la Suprema Corte rammenta che decorso il sessennio previsto dalla normativa di riferimento, il praticante avvocato non può esercitare oltre detto patrocinio, anche laddove rimanga iscritto negli appositi elenchi della pratica forense. Ciò poiché, da una parte, non v’è alcuna specifica previsione normativa che contempli l’espressa cancellazione e, dall’altra, perché l’iscrizione potrebbe essere legittimamente mantenuta per coltivare l’interesse a proseguire la pratica forense non in veste informale, ma con una precisa qualifica ed in un rapporto di giuridica dipendenze con un professionista già abilitato.

Infine, i Giudici di Piazza Cavour, in relazione alla domanda di cancellazione di frasi offensive e denigratorie contenute negli atti di giudizio e conseguente domanda di risarcimento dei danni, menzionano il consolidato orientamento per cui detta istanza costituisce una mera sollecitazione per l’esercizio di un potere discrezionale, di guisa che non può formare oggetto di impugnazione l’omesso esame di essa, nè il mancato esercizio di suddetto potere (il quale, peraltro, atteso il relativo carattere discrezionale, non può neppure essere censurato in sede di legittimità).

A cura di Alessandro Marchini