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giurisprudenza

Sull’onere dell’avvocato di fornire prova liberatoria della propria responsabilità professionale (Cass., Sez. III, Ord. 6 settembre 2024, n. 24007)

Con l’ordinanza in esame, la Suprema Corte si è pronunciata nell’ambito di un giudizio promosso dal cliente, nei confronti del proprio difensore, volto ad ottenere il risarcimento danni per responsabilità professionale.

Il legale aveva introdotto una causa volta ad ottenere il riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione subita senza premunirsi della firma del cliente, con conseguente inammissibilità del ricorso.

Riformando la sentenza del Tribunale, che aveva ritenuto non fornita la prova del probabile esito positivo del giudizio di riconoscimento indennizzo da ingiusta detenzione, la Corte di Appello adita aveva condannato l’avvocato a risarcire i danni lamentati.

La Corte di Cassazione, investita del ricorso contro la sentenza di condanna, lo ha rigettato.

Preliminarmente, la Suprema Corte ha ribadito che “non è sufficiente infatti a fondare il diritto risarcitorio la sola prova della negligenza, anche se preclusiva dell’azione giudiziaria, lasciando ricadere sul professionista convenuto l’onere di provare che l’iniziativa, anche se regolarmente intrapresa, non avrebbe avuto realistiche probabilità di successo, traducendosi ciò in un indebito ribaltamento degli oneri probatori, perché l’onere del convenuto di fornire la prova liberatoria della propria responsabilità scatta soltanto se è accertato il nesso causale tra la condotta colposa e il danno”.

Ma la Corte ha altresì osservato che nella valutazione in questione deve tenere conto altresì delle peculiarità del giudizio che, nel caso di specie, non si è celebrato in conseguenza della negligenza professionale.

In particolare, la Corte ha evidenziato che il giudizio ex art. 314 e 315 c.p.p., volto ad ottenere il riconoscimento del diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione, è “un giudizio sottratto ai canoni dell’art. 2043 c.c., di competenza del giudice penale, regolato almeno in parte dall’impulso di ufficio”.

Pertanto, ha concluso, sul punto, la Corte, “a fronte della intervenuta assoluzione nel merito del Tizio dalle incolpazioni per le quali era stato sottoposto a carcerazione, che il giudizio volto al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta riparazione avrebbe avuto esito probabilmente positivo, e che a fronte di ciò sarebbe stato onere del convenuto dover allegare, quale fatto estintivo, l’esistenza di una situazione riconducibile alla colpa o al dolo dell’imputato che avrebbe potuto portare ad un giudizio di non meritevolezza dell’indennizzo, pur a fronte di una assoluzione nel merito, ovvero all’esistenza di una condizione ostativa all’accoglimento”.

A cura di Giulio Carano